Sia ben chiaro:

Solamente una persona con gravi problemi psichici potrebbe ritenere questa accozzaglia di pensieri e parole come una testata giornalistica,anche perchè viene aggiornata senza alcuna periodicità.

NON PUO'PERTANTO CONSIDERARSI UN PRODOTTO EDITORIALE EX L.62 7/3/2001.



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giovedì 22 dicembre 2011

Il tacchino di Natale

di Achille Campanile (in "Manuale di conversazione" - Rizzoli 1973)
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Il tacchino va bene per il Natale, 
ma il Natale non va bene per il tacchino. 
(Proverbio inesistente)


"I gesuiti, per opinione generale, introdussero il tacchino in Francia". 
Questa, in termini concisi, direi addirittura secchi, la notizia nuda e cruda tramandataci dalla storia. 
Intanto sul fatto che sia opinione generale, ho i miei dubbi. Per conto mio non ho nessuna opinione in proposito. Ho trovato l'asserzione nell'opera "Gli uccelli" di Figuer e per controllarla ho interrogato amici e conoscenti, su chi avrebbe introdotto il tacchino in Francia. Tutti, senza eccezione, si sono dichiarati incompetenti a rispondere. Perfino i cuochi. 
Comunque, diamo per buona la notizia. Da essa balzano anzitutto alcuni interrogativi: come mai i gesuiti introdussero il tacchino in Francia? che rapporti avevano quei religiosi con questo animale? e come mai, prima d'esservi introdotto dai gesuiti, il tacchino non era mai entrato sul suolo della nostra sorella latina? Dire per mancanza di passaporto, sarebbe voler scherzare. Come lo sarebbe dire che non vi erano ammessi i tacchini, perché è la terra dei Galli. 
Piuttosto, c'era forse qualche rete protettiva lungo i confini della Francia, appunto per impedire che il tacchino sconfinasse abusivamente? 
In qualunque modo si sia svolta la faccenda, immaginiamo la scena a cui allude la storia. Siamo presso il confine francese. Confine colla Svizzera, colla Spagna, colla Germania o il Belgio? Oppure con l'Italia? 
Questo, la storia non lo dice, ma la differenza conta. Voi capite che, se il tacchino entrò dalla Germania o dal Belgio, forse era accompagnato da fegato grasso tartufato, e quasi certamente da patate e da cavoli. Laddove, se la Spagna fosse stato il luogo di provenienza, il suo corteggio sarebbe stato a base di pomodori o di peperoni. Innaffiato da vino, se proveniente dal Sud o dall'Ovest; da birra, se da paesi fiamminghi. 
Dunque, sarebbe importante sapere da dove fu fatto il colpo. 

Escludiamo l'Italia, in quanto resterebbe poi da sapere da chi e come il tacchino fosse stato introdotto presso di noi. Ci sarebbero gli altri paesi. 
Immaginiamo la Spagna; i Pirenei. Zona di contrabbandieri che ben si adatta a un colpo di mano del genere e da all'impresa un colore romanzesco, uso Carmen. E' notte. Fischia il vento fra quelle gole selvagge. I gesuiti, che si sono proposti d'introdurre questo animale da cortile in Francia, cercano di fargli passare la frontiera spingendolo con giunchi, stuzzicandolo perché cammini. Il tacchino pettoruto incede e, dietro, la schiera dei religiosi. 
Ora, due sono le ipotesi: l'introduzione del tacchino avvenne palesemente o clandestinamente, visto che si trattava d'un animale ancora ignoto in Francia? 
Nella prima ipotesi bisogna immaginare l'arrivo al posto di frontiera. I doganieri vedono lo strano animale in compagnia d'una compagnia di gesuiti. Qualcuno ha un piccolo moto di timore. 
"E questo che cos'è ?"
"Il tacchino."
"A che serve ?"
"A farlo arrosto"
"Ohibò!"
"E' ottimo a Natale e a Capodanno."
"Bè, passi, allora."
Nella seconda ipotesi, bisogna immaginare i gesuiti che aspettano il calar della notte e indi s'avventurano a passar la frontiera clandestinamente con l'animale di contrabbando. Quante peripezie, quanti patemi, prima d'arrivare al mal passo! E finalmente, zitti!, ci siamo. In punta di piedi i gesuiti, fra le gole dei monti, passano in fila indiana, spingendosi avanti il tacchino. Non era prudente lasciarlo indietro, visto che poteva sperdersi o essere acciuffato da qualche malintenzionato. Proprio a un passo dalla frontiera la bestiaccia, manco a farlo apposta, si mette a fare: glu glu glu... 
Maledetto. I religiosi cercano di tappargli il becco. Cosa non facile. Ma sì! Quello starnazza. Rimbombano nelle tenebre notturne tre o quattro spari, i gendarmi confinari sono in allarme, s'odono di qua, di la, passi concitati nel buio, grida di "Chi va là ?". I gesuiti, immobili nelle tenebre, trattengono il respiro. Uno s'è ficcato sotto la tonaca il maledetto gallinaceo e gli tiene la testa avvolta nella gonna, perché non s'oda. Il tacchino si dibatte, ma viene trattenuto. Finalmente, torna la calma. Il pericolo è passato. In punta di piedi, i gesuiti riprendono il cammino, col tacchino avvolto in panni, a rischio di soffocarlo. 
Sia lodato il cielo, la linea è superata. Siamo in terra di Francia. I gesuiti lasciano libero l'animale e proseguono liberi, felici. 

Il tacchino è stato introdotto in suolo francese, nella terra della libertà, dove l'attende la padella. 
Ma forse, tutto questo non è che fantasia. Forse l'introduzione avvenne via mare, più probabilmente, poiché credo che il tacchino provenisse dall'America e che in Europa fosse ancora ignoto. 
Doveva essere il Sei o il Settecento. L'epoca dei galeoni, dei pirati, dei tesori nascosti nelle isole disabitate. Allora viaggiare per mare era un'avventura. 
Quante peripezie nella lunga traversata, durante la quale più volte l'incolumità del gallinaceo dovett'essere messa in pericolo dalle tempeste, dalle sollevazioni di un equipaggio poco docile e soprattutto dallo scarseggiare delle vettovaglie. Per tacere delle occulte e subdole mire del capitano in persona, desideroso magari d'offrire un pranzetto en tete a tete a qualche bella passeggera avventurosa, uso Manon Lescaut.
Mancavano i viveri a bordo. Equipaggio e passeggeri, deportati e deportate, languivano famelici nelle stive, fra tutte quelle lanterne, fra quelle botti, quei barili, quelle botole, scale, scalette, gambe di legno, e quegl'ingombri d'ogni specie che rendevano oltremodo difficile la circolazione sulle navi d'una volta e che, dopo alcuni secoli, dovevano rivelarsi provvidenziali per gli autori dei film di pirateria e filibusteria. 
Il capitano sa che c'è a bordo, chiuso in una gabbia, il misterioso pennuto. Un'occhiata d'intesa al cuoco, quasi certamente cinese. Un lampo di risposta sinistro, nello sguardo di questo. E appena cala la notte, malgrado la presenza a bordo di alcuni misteriosi personaggi - possibilmente con almeno una gamba di legno - un'ombra armata di coltello scivola nelle tenebre verso la stiva, si cala nel boccaporto. 
Un attimo d'attesa e subito uno starnazzare d'ali e un gorgoglio disperato, strozzato immediatamente. Il colpo e fatto. Tra poco nella cabina del comando sarà straziante e splendido vedere la salma del tacchino dorata dal forno, stesa immobile supina fra quattro candele, esalante quel profumo appetitoso, sulla tavola del capitano riccamente imbandita. E la bella deportata cederà le proprie grazie in cambio d'una dorata fetta del saporito gallinaceo. Eh, si potrebbe scrivere un romanzo sulla traversata oceanica del tacchino! Un romanzo nel quale converrebbe dare il debito posto anche alle proteste dei gesuiti, ai loro mille sottili artifizi per salvare il pennuto dal coltellaccio della cucina e portarlo sano e salvo in Francia. 
Dove evidentemente avevano intenzione di fargli fare la stessa fine, altrimenti non si spiegherebbe tutta la loro smania d'introdurlo nel vecchio mondo. 

Ma, ora che ci penso, perché ciò potesse avvenire, come avvenne, occorre che l'episodio della traversata oceanica relativo al pranzo offerto dal capitano alla bella deportata, a base di tacchino arrosto, si concluda in senso sfavorevole alle mire del capitano stesso, e' che il tacchino, per qualche drammatico avvenimento che potrebbe dar materia ad un interessante capitolo, sfugga al coltello del cuoco cinese. 
Allora, sorvoliamo su tutto ciò, per arrivare subito alla banchina del porto di Le Havre o di Marsiglia. E una mattina d'inverno nebbiosa e triste. Da qualche minuto è arrivato il pacchebotto d'oltre oceano e si sta procedendo alle operazioni di sbarco. Una compagnia di gesuiti s'appresta a scendere la scaletta, tutti stretti l'uno all'altro, come per nascondere qualcosa. Il doganiere li conta, controllando il registro di bordo:
uno... due... tre... Si, sono tutti, non ne manca e non ne cresce nessuno. 
Avanti. I gesuiti passano. Nel momento cruciale, proprio sotto gli occhi del controllore, s'ode un improvviso glu-glu soffocato. 
Che è? Chi è stato? Il doganiere guarda il gruppo con aria sospettosa. Non conosce ancora il tacchino, non sa che quello è il suo verso. Crede si tratti d'uno sberleffo. Fissa severo i religiosi, che passano seri, un poco pallidi. 
L'hanno scampata bella. Ma tutto è bene quel che finisce bene. Ora fortunatamente il pericolo è  passato, il tacchino è in Francia, cioè in Europa, e comincia per lui la sua seconda vita: la fulgida era in cui verrà sempre più onorato nell'intiero vecchio mondo, oltre che nel nuovo, a Natale e a Capodanno. 
Certo, dovett'esserci anche un che di gesuitesco, nell'introduzione. Forse essa avvenne mercè qualche sottile accorgimento. Forse si finse d'introdurre altro, magari un semplice gallinaccio, un cappone. Forse si spacciò  il tacchino per un grosso colombo. O per una delle aquile romane, di ritorno. 
Ma qui mi viene il dubbio che l'eroe della nostra storia sia stato introdotto arrosto. In questo caso ci sarebbe tutto da rifare, circa le scene 
immaginate. Come riuscirono a passare, i gesuiti, con la teglia calda e il suo profumato contenuto? E dove e come avevano cucinato l'animale, non prima visto da altri? 
Interrogativi che attendono risposta. Ma l'essenziale è che ora esso c'è e ci resterà. 
E non rimane che fargli quella festa che merita.


lunedì 19 dicembre 2011

Un anno di spot


24.12.2010.«Il 2011 sarà l'anno della ripresa» (Silvio Berlusconi).

12.1.2011. «L'ipotesi di una nuova manovra correttiva in Italia è irrealistica. Non c'è nessuna necessità di farlo, e ad oggi non c'è alcun rischio di questo tipo» (Silvio Berlusconi).

8.4.2011. «Mai saputo niente» (Giulio Tremonti, in risposta a chi gli chiedeva di una possibile manovra di correzione dei conti per giugno).

13.4.2011. «Non abbiamo emergenze o urgenze. Fare un drammatico intervento su 2011? È una visione pessimistica. Noi abbiamo per obiettivo il pareggio 2013-2014 e in funzione di quello dobbiamo fare calcoli e conti. Escludo lacrime e sangue» (Giulio Tremonti).

29.4.2011. «L'Italia ha messo alle proprie spalle il picco della crisi meglio degli altri paesi europei. L'Italia è riuscita a superare il punto critico della crisi economica internazionale ottenendo anche la fiducia dei mercati. Abbiamo realizzato una vera e propria mission impossible: e l'abbiamo fatto senza mettere mai le mani nelle tasche degli italiani» (Silvio Berlusconi).

4.5.2011. «Non è prevista nessuna manovra correttiva sui conti pubblici per il 2011» (Luigi Casero, sottosegretario al Tesoro).

5.5.2011. «Il mio vocabolario è abbastanza ristretto, manovra è una parola che non capisco...» (Silvio Berlusconi, rispondendo con una battuta a chi gli domandava se fosse in vista una manovra correttiva).

5.5.2011. «Non è così» (Silvio Berlusconi, in risposta a chi gli chiedeva, a Porta a Porta, della necessità di una manovra da 40 miliardi per il pareggio di bilancio).

9.6.2011. «Quest'anno faremo un'opera di manutenzione di qualche miliardo, tre miliardi. Faremo nei prossimi anni quello che abbiamo già fatto negli anni precedenti. Non si tratta di nulla di preoccupante. [In totale] Non sono 33 miliardi per niente, state tranquilli, inutile andare a preoccupare i cittadini per cose che non sono vere, andremo avanti con uno 0,7-0,8 di Pil, non c'è da preoccuparsi» (Silvio Berlusconi).

14.6.2011. «Quello che abbiamo già fatto è sufficiente» (Giulio Tremonti, su una eventuale correzione dei conti pubblici per il 2011 e 2012).

16.6.2011. «Abbiamo le idee chiare e non siamo preoccupati dell'impatto che [la manovra] potrà avere sull'opinione pubblica» (Silvio Berlusconi).

24.6.2011. «La manovra non avrà una cifra molto elevata» (Silvio Berlusconi).

26.6.2011. «Tutti gli organismi internazionali di controllo hanno dato dei pareri molto positivi sulla nostra attività di governo, hanno riconosciuto che nei primi tre anni di governo abbiamo operato al meglio e abbiamo posto i conti pubblici in sicurezza, al riparo dagli attacchi della speculazione internazionale» (Silvio Berlusconi).

30.6.2011. «Il popolo italiano capisce. La sua richiesta è quella di essere rigorosi e seri. La gente è molto favorevole a questa disciplina» (Giulio Tremonti).

30.6.2011. «Siamo stati ligi a non mettere le mani in tasca agli italiani ma qualche 'cosina' la abbiamo pensata, ma sono cose di pochissimo conto: pensavamo, per esempio, di eliminare il bollo auto ma ci sembrava logico che per grandi auto si potesse fare una piccola aggiunta» (Silvio Berlusconi).

7.7.2011. «L'ho annunciato io stesso in conferenza stampa, il governo è assolutamente aperto a modifiche durante l'iter parlamentare senza però che sia modificato il saldo finale» (Silvio Berlusconi; il saldo in realtà è lievitato, da allora, da 50 miliardi a 87,7).

3.8.2011. «Il nostro Paese è solido. Abbiamo fondamentali economici solidi. Le nostre banche hanno superato gli stress test europei mentre ovunque è aumentata l'incertezza. (…) l'evoluzione dei conti pubblici è più favorevole che in altri Paesi avanzati. Grazie alla azione di finanza pubblica del nostro governo, i conti sono migliorati e abbiamo un deficit di bilancio meno ampio di quanto indicato (5%) e comunque più basso di altri paesi area europea» (Silvio Berlusconi).

9.9.2011 «noi abbiamo una Stato indebitato ma dei cittadini benestanti ecco perché l'Italia è all'ultimo posto in Europa per il debito pubblico, ma diventiamo il secondo Paese in Europa per solidità e benessere dopo la Germania se facciamo l'aggregazione del debito pubblico con quello privato» (Silvio Berlusconi).

20.9.2011. «Le decisioni dell'agenzia sembrano dettate più dai retroscena dei quotidiani che dalla realtà delle cose e appaiono viziate da considerazioni politiche» (Silvio Berlusconi, alla notizia che S&P taglia il rating sulla capacità dello Stato di far fronte al debito).

4.10.2011 «L'Italia è tra i pochissimi paesi al mondo che ha un avanzo primario. L'avanzo primario cresce. Noi siamo in controtendenza - è il doppio della Germania, mentre nel caso della Spagna potrebbe dipendere dall'annuncio di nuove elezioni» (Giulio Tremonti, quando per la prima volta nella storia dell’euro lo spread italiano supera quello spagnolo)

4.11.2011. «Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni» (Silvio Berlusconi).
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Tanto per non scordare......



mercoledì 14 dicembre 2011


Due erano le passioni che avevo sin da piccolo: il cielo stellato e la bicicletta. A testimonianza della seconda, il fatto di aver passato il primo venti per cento della mia esistenza con le ginocchia perennemente sbucciate; a ricordo della seconda, il fatto di voler sempre andare in macchina con un mio zio, fratello di mio padre particolarmente dandy, e felice possessore di Giulietta Spider prima, e Fiat 124 Spider poi. 
Gli altri si affezionavano al vento, io a guardare il cielo.
Quindi, due domeniche fa, provate ad immaginare l’emozione di poter incontrare dal vivo Margherita Hack: l’occasione, un incontro in una libreria cittadina per presentare il suo libro “La mia vita in bicicletta” (Ediciclo). “Un lungo viaggio su due ruote attraverso i grandi eventi del Novecento”, recita la fascetta.
Ma lei è molto di più che una grande astrofisica, o di una scafata ciclista quasi novantenne: lei COMUNICA. E’ una grande affabulatrice, sa come attirare l’attenzione e la si ascolta in silenzio, incantati,  come astraendosi da una realtà che non sia quella del suo narrare. Per dire, ha esordito affermando di aver “preferito oggi spostarsi a cavallo di un neutrino, lungo il tunnel della Gelmini”, ed ha proseguito ripercorrendo la sua vita con immancabile ironia toscana, e sempre tenendo presente il legame con lo sport e con la bicicletta in particolare. Dal primo monopattino senza freni alla bicicletta da corsa, dalle instancabili pedalate fino al Liceo Classico Galileo di Firenze a quelle per andare all’osservatorio di Arcetri, la sua vita privata e professionale con la bicicletta come punto di riferimento. Al punto da avvalersene anche per un’efficace ulteriore dimostrazione delle tesi di Galileo, in occasione di un volo in bicicletta conclusosi con una ricaduta in sella: “non è stata fortuna , è stata la Fisica: facevo parte del sistema-bicicletta come si fa parte del sistema-terra mentre il nostro pianeta gira”. Ma la passione per la bicicletta è anche il ricordo degli anni della scuola, “il disagio di arrivare tutta scarruffata di fronte alle ragazze ben vestite della borghesia fiorentina”, e soprattutto l’amore per Aldo, il compagno di tutta una vita, anche quella sera in prima fila. E poi, la bocciatura in matematica, l’esame di maturità evitato per lo scoppio della seconda guerra mondiale, la scelta dell’antifascismo di fronte all’espulsione della professoressa di scienze perché ebrea, l’iscrizione alla Facoltà di Lettere -durata un’ora-  e quindi la scelta definitiva della Facoltà di Fisica.

Il tutto raccontato con la sua spietata lucidità ed ineguagliabile sarcasmo, nel colpire gli inganni e le assurdità tanto del passato quanto del presente. Anche riguardo all’attualità ha le idee ben chiare: dal sistema universitario, che forse “non è del tutto marcio, ma è certo penalizzato da una miriade di piccole università di serie B”, all’energia nucleare “che va investigata puntando alla trasformazione di idrogeno in elio come accade nelle stelle”, al progresso della conoscenza, che ci rivela “come non siamo poi così piccoli, se in due secoli abbiamo scoperto tanto guardando quelle lucine”. Riguardo poi alla politica di oggi, l’astrofisica sembra piuttosto fiduciosa: “oggi c’è un governo dove la gente sa leggere e scrivere e far di conto, magari le cose cambieranno”.
Alla fine, si è soffermata a lungo a con noi “encantados”, un po’ per firmare le copie del suo libro, un po’ beccandosi col pazientissimo consorte  [“ ‘un l’ha ancora capito che certe cose le si possono fare solo da vivi”], un po’ a ridacchiare con un paio di sue ex allieve.
Usciti dalla libreria, vedere l’umanità varia intenta a spendere sulle bancarelle natalizie mi ha fatto quasi impressione: ho alzato gli occhi al cielo, c’è sempre da imparare.
Non so perché, ma ho sorriso.

sabato 10 dicembre 2011

A quatre pas d’Ici

Stamattina, mentre trafficavo con statuette, capanna, muschio cinese, sangiuseppe che assomiglia ad uno dei Pooh, ecc.ecc. , mentre ripensavo alle polemiche di questi giorni sulla esenzione dall’Ici per le attivita’ di culto e quelle di assistenza sociale, oltre che per le attivita’ commerciali svolte da enti e realtà riconducibili alla Chiesa Cattolica, mi è balenata un’idea: facendo il Presepe, sono esente anch’io, adesso che il governo Monti reintroduce l’imposta, dall'ICI? 
Mi impegno a tenerlo tutto l'anno, ed in più sto facendo anche un'opera di carità e beneficenza mantenendo i miei figli ed un gatto. Dò loro ospitalità gratuita, li vesto, provvedo alle loro necessità quotidiane e somministro loro gratuitamente pure tre pasti al giorno. Inoltre non nego bevande calde e generi di conforto agli amici dei miei figli, alle amiche di mia moglie, sintonizzo i televisori di mezzo condominio, aiuto parenti e conoscenti degli stessi, nonchè i rispettivi vicini di casa, nelle pratiche burocratiche, dò consigli finanziari, tutto rigorosamente gratis.
Credo che basti per configurare casa mia come luogo di culto ed ente caritatevole. Praticamente sono una onlus: dovrei detassare il mio stipendio.
Allora telefono alla commercialista, e sulla base di queste considerazioni, le chiedo: posso esimermi dal pagare l'Ici? Posso avere qualche altra agevolazione? Posso richiedere il 5x1000? Mi impegno a sostituire le varie musichette natalizie lasciando acceso tutto il giorno su Radio Maria.
Risposta acidula della stessa: "La capanna del presepio in casa va considerata come pertinenza dell’abitazione, pertanto tassata come seconda casa". Poi, non paga di aver umiliato il mio sentito credere: "Dove hai comprato l'asinello?  Hai pagato in contanti?  Avevano il POS rotto? Ricordati di accatastare il bue e l'asinello e ricordati che pagano la tarsu in funzione della spazzatura che producono".
E poi dice che uno si butta a sinistra.

giovedì 8 dicembre 2011

La veste dei fantasmi del passato

[Durante la importazione dei vecchi post, ho sbattuto la faccia su questo, che secondo WP è stato quello più letto in assoluto nella storia del fiume. Lo ripropongo perchè ogni tanto tornare sui propri passi non è solo un esercizio o una vanità, ma un sottile senso del sentirsi vivi]
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“Stiamo servendo il numero…sessantaaaaa!”
La voce fredda, robotica, vorrebbe avere parvenza femminile, ma di una donna così se ne farebbe, credo, volentieri a meno. Guardo il mio tagliandino, diciotto numeri più in là, non diciotto persone, come minimo, in fila.
Numeri.
Persone è un concetto che finisce come quel pane indurito nella grattuggia della signora con cappellino similpelle che vuole, appunto, “tre etti di pane grattato”.
Mi guardo in giro, mentre la calcolatrice mentale considera che al ritmo di un numero ogni due minuti diviso tre commesse ecc.ecc.
“Mo valà..pretendi che io ti creda?”La voce è calda, stavolta. Arrabbiata, fino al confine del rauco. Di femminile non c’è solo lei: ci sono i riccioli biondi che spuntano dalla cuffietta con ponpon, c’è il profilo delicato, ci sono questi occhi grandi che la telefonata sta rendendo acquosi.
Se lui la vedesse, anziché rantolare scuse al telefono, non potrebbe non capire e, di conseguenza, fare altro che vergognarsi.
La guardo, la sua altezza, impreziosita da stivali col tacco, mi fa pensare a quanto il concetto di bambolina a volte non sia solo un modo di dire.
“Ed era il caso? Ma allora sei proprio ciordo*”Si, sconosciuta vicina in fila, lo è. Lo è per forza. Perchè il verde dei tuoi occhi è troppo trasparente per nascondere qualcosa, ed in te si legge l’innamorata delusa.“…settantasette…”
Passa il tempo senza accorgertene, quando ti impicci degli affari degli altri. Mentalmente ripasso la quantità di pane da prendere, valutando che la domenica non sarà un raddoppio del solito e che comunque a casa mi aspetterà il solito “potevi, non potevi, tanto c’è, tanto non c’è”. Va bene, va bene lo stesso.
“..io non ti chiamo più, t’arrangi..”Va bene, bambolina, anche se l’istinto mi dice che non sarai sincera fino in fondo verso te stessa.
Raccolgo il mio sacchetto, il profumo mi piace, mi piace proprio, ed il calore che trasuda dalla carta è come minimo piacevole.
Come è piacevole, dopo, vedere gli occhi del ragazzo che presta amorevole cura al nastro grosso con cui la commessa gli sta avvolgendo la scatola di cioccolatini. E quando la penna scrive sul biglietto “alla mia Lei speciale” capisci che è sincero.
E che non puo’ essere che vero.
E che se al sabato mattina verro’ ancora qui a comperare il pane, non è detto che sia solo perchè si risparmia.
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*ciordo= termine dialettale per indicare uno stupido.

lunedì 5 dicembre 2011

Invisible touch


Uno dei grandi miti dell’umanità è, da sempre, quello dell’invisibilità. Romanzi, film, saghe, leggende, fumetti, insomma di tutto e di più. Non essendo riusciti a far diventare l’invisibilità, almeno per ora, una tecnologia di massa, una di quelle cose che fa figo (insomma, non c’è per ora uno Steve Jobs a presentare un i-Nvisible) c’è chi ha cercato un surrogato. Per gli automobilisti il surrogato è nascosto (ma neppure troppo) in quel tastino che abbiamo a disposizione, quello con sopra tanti triangolini uno dentro l'altro, grazie al quale le frecce davanti e le frecce dietro lampeggiano contemporaneamente: le cd. Quattrofrecce.
Pensate che storia: al guerriero tutto bardato ed armato che con voce roboante chiama “Excalibur”, l’ometto insignificante che è in noi alza le spallucce ed obietta, con un certo successo “ecchemefreegaame? Tanto ci ho le Quattrofrecce, io”.
Inventate in Germania, non a caso la terra dei Nibelunghi, fino agli anni Ottanta  erano totalmente sconosciute in Italia: al massimo le notavi con curiosità sulle macchine  di qualche turista in Rivera Adriatica, ma solo se era notte fonda, la Mercedes era rimasta sul ciglio della strada, col cofano fumante, almeno tre ruote a terra, la marmitta persa duecento metri prima e gli occupanti che sporgevano dagli sportelli aperti a vomitare anche l’anima. Il tutto in un giorno di tempesta.
Ma il genio italico, una volta arrivata l’arma micidiale anche sulle nostre macchinette, ha saputo, e potuto, di più: fino a farle diventare, appunto, il surrogato alla invisibilità di cui sopra. Non c’è nessun problema: dovete portare i pupi a scuola, e non c’è un buco libero per metri e metri (già, perché lasciare il pupo, foss’anche un bestione di un metro ed ottanta, a fare venti metri a piedi è grave pregiudizio per la salute e per l’onore)? Bene, occupate la fermata del tram, pulsantino magico, et voilà: nessuno potrà mai dirvi niente, tanto ci avete le quattrofrecce, voi.
Dovete, la domenica, comperare un cabaret di paste nella prestigiosa pasticceria che lavora così bene e che la crema come loro, e quelle alla frutta, poi? Nessun problema: dato che i vostri gusti sono in media con quelli della maggioranza di chi alla stessa ora nello stesso punto ha la stessa esigenza, mentre altri si scannano per contendersi un sospirato posto nelle strisce, voi lasciate la fiera scudiera con le Quattrofrecce aizzate, e nessuno può permettersi di obiettare: in fin dei conti, vi sacrificate per la vostra famiglia, e si sa che a parlare di famiglia dalle nostre parti si colpisce sempre al cuore misericordioso del prossimo.
Chè poi, anche linguisticamente (e le parole, si sa, sono macigni) la cosa ci sta tutta: i libretti le chiamano luci di emergenza, e lo dice la parola stessa: emergenza, quindi qualcosa che emerge. Un’idea, un’esigenza, una paura: ad esempio, quella di tornare a casa senza essere passati dalla lavanderia a ritirare quel tal capo della vostra sposa che ve lo ha ricordato telefonicamente e che voi, con aria sufficientemente spavalda, avete liquidato col più convinto dei ci penso IO quando passo e che, ovviamente, avevate non pensato. Ovviamente, dall’unica lavanderia sulla strada, in prossimità di incrocio semaforico ai cui quattro angoli ci stanno la lavanderia stessa, il barbiere, il negozio di telefonini ed il panettiere: ma senza le Quattro, come faremmo?
C’è un solo, unico grande limite: che, in base al principio nazionale del cca nisciuno è fesso, tutti sappiamo usare l’arma micidiale, e ne riconosciamo al volo l’uso altrui: e dato che non è matematicamente possibile avere un popolo di tutti furbi, è assai più facile pensare che credendoci in massa tali, non ci si accorga, tutti, di essere, alla fine, un po’ coglioncelli. 

giovedì 1 dicembre 2011

Campanilismi

Qualche giorno fa, Akio, nel suo diario "A video spento", miniera di letture e riflessioni, ha citato un brano di Achille Campanile, vero e proprio Padre Nobile dell'umorismo e dell'ironia: qualunque libro suo è una fonte inesauribile di attrazione, intelligenza, divertimento.Esiste un sito a lui dedicato, una specie di buona cantina da cui il palato esce sempre soddisfatto ed appagato. Da lì, copio questa pagina dedicata al "famigerato" romanzo "Cuore" di De Amicis, una lettura che rasenta quasi l'horror in generale, e che nella critica di Campanile diventa uno di quei libri da leggere con una mano sola, l'altra essendo impegnata in gesti apotropaici. Buona lettura, quindi: un po' lunghetta, ma vale tutta fino in fondo, non escludendo le virgole.
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Le disgrazie di De Amicis non sono finite. L'ultima gli è capitata alla TV, dove in un dibattito pare che qualcuno abbia parlato male di lui. Dico pare, perché ho letto lettere di protesta nei giornali. È un fatto che molto alla leggera oggi si stronca tutto quello che è passato.E in «Cuore» è molto facile trovare frasi che, scritte per commuovere, da parecchi anni fanno sorridere e magari ridere. Quel mondo è una specie di Cottolengo, in cui i ragazzi sono pallidini e non ridono mai, molti hanno sempre l'aria spaventata, sembrano malatini, o hanno gli occhi buoni e tristi; spesso i padri li battono, molti hanno fame ma non hanno da mangiare, altri sono laceri e malaticci; le privazioni e le busse li intristiscono; qualcuno ha un braccio morto (perfino i bracci, morti!).

Gli uomini hanno una grande e severa barba nera e anch'essi non ridono mai. Le maestre sono tutte dimagrate, i maestri hanno tutti qualche pelo bianco di più nella barba; il maestro di quarta è zoppo, il maestro di ginnastica ha una cicatrice sul collo, il direttore della scuola è tutto vestito di nero (giurerei che è in lutto), sempre abbottonato fin sotto il mento (doveva essere allegro, a vedersi).

Quasi tutti sono o sembrano in lutto. Arriva il sovrintendente scolastico : «un signore con la barba bianca, vestito di nero». Anche il fratello di Enrico è malaticcio. Le madri sono quasi tutte malate. Enrico va a trovare un compagno di scuola e nella stanza trova la di lui madre in un gran letto, malata, con un fazzoletto bianco intorno al capo: visione quasi spaventosa, che ricorderebbe un po' il lupo di Cappuccetto Rosso, se la situazione non fosse tutt'altra. «Li avete presi i due cucchiarini di siroppo?», le dice il figlio.

Il maestro difende uno scolaro dai compagni che lo malmenano: «Avete schernito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere!»; non so quanto la difesa possa far piacere al malmenato. Uno scolaro «si leva sempre i peluzzi dai panni» (una classe di maniaci?); un altro cammina con le stampelle, essendo stato investito mentre salvava un compagno da investimento. «Anche la maestra era triste, oggi»; tanto per far cosa nuova.

Nemmeno i personaggi dei racconti mensili si salvano: la piccola vedetta lombarda: «Sono un trovatello!» (e poco manca che non aggiunga: «figlio di trovatello, discendente da un'antica famiglia di trovatelli»).

Il maestro si ammala gravemente e mandano a sostituirlo un maestro vecchio che è stato insegnante all'Istituto dei ciechi. La maestra di prima superiore, così pallida, e tossisce sempre! (Sta a vedere che muore anche lei). All'ex scolaro che, promosso, va in altra aula, dice con tristezza: «Non ti vedrò più nemmen passare!». E ha anche una punta di sadismo: «Ha voluto rivedere il letto dove mi vide molto malato due anni fa. Lo ha guardato per un pezzo e non poteva parlare». (Ma è guarito! Capirei fosse morto. Sta benissimo, invece).

Enrico annota: «La scuola, senza il maestro dell' anno scorso, non mi par più bella come prima». Sai quanto gli pareva bella, con l'altro maestro! Fortuna che c'è il nuovo maestro, «con la sua voce grossa ma buona! ».

E il padre d'Enrico! Una specie di Barbariccia del «Corriere dei Piccoli», sempre in agguato, per interloquire, far prediche, pronunziare frasi dal tono leggermente sinistro. Fin dal primo giorno di scuola. Un ragazzo è investito dall'omnibus; e lui: «Una disgrazia! L'anno comincia male!». Non è soddisfatto del figlio. Gli scrive lunghe lettere: «Ancora non ti vedo andare a scuola con quel viso ridente che vorrei». È una bella pretesa, che il figlio vada a scuola col viso ridente! Va a curiosare fra le carte del ragazzo, gliele riempie con postille e annotazioni; dove il figlio parla della gioia della prima nevicata: «Voi festeggiate l'inverno, ma ci son ragazzi che non hanno né panni né scarpe, né fuoco... Pensate alle migliaia di creature a cui l'inverno porta la miseria e la morte». E via, via, con un lungo elenco di disgrazie e miserie. Verissime, purtroppo. Ma il ragazzo non può nemmeno gioire per la prima nevicata. Il padre gli procura il magone.

Certe volte la predica non si basa nemmeno su fatti, ma su semplici supposizioni: «Il tuo compagno Stardi non si lamenta mai del suo maestro, ne sono certo...». E via, con una serie di confronti basati sulla supposizione che Stardi non si lamenti.

Sempre pronto a intervenire. Ferma il figlio che sta per ripulire la spalliera dove il muratorino in visita ha lasciato un'impronta di gesso. Potrebbe poi spiegare al figlio: «L'ho fatto perché tu non lo mortificassi», e basta. Invece gli scrive una lunga missiva: «Lo sai figliolo, perché non volli che ripulissi il sofà? Perché il lavoro non insudicia, perché, ecc. ecc, i calli..., la vernice..., la calce..., la pozzolana... ». E pensa a tutto. Quando viene in visita il gobbino, segretamente fa scomparire dalla parete il quadro che rappresenta Rigoletto, il buffone gobbo, perché l'ospite non lo veda. S'immischia, va curiosando. Vede un capannello per la strada: «Cos'è stato?»; sempre per trame motivi d'insegnamento al figliolo.

Spia il figlio perfino dalla finestra. E poi gliene scrive lunghe lettere. Non gli da respiro: «Tu hai urtato una donna. Bada meglio a come cammini. La strada è la casa di tutti. Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, uno storpio con le stampelle... », e via, via, una lunga lista di persone a cui cedere il passo, sicché c'è da pensare che ben difficilmente il ragazzo potrà fare un passo avanti, per la strada. E poi una serie d'incombenze che assorbiranno completamente il tempo della gita e gl'impediranno di arrivare dove che sia, inchiodandolo al punto di partenza: raccogli il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere, sorreggi il debole che attraversa la strada, soccorri il fanciullo in pericolo, aiuta nelle ricerche chi ha smarrito qualche cosa...

La casistica è completa e particolareggiata: se vedi una persona a cui arriva addosso una carrozza, se è un bimbo tiralo via, se è un adulto avvertilo; se due ragazzi rissano, va' a dividerli; se a rissare sono due adulti, allontanati; se passa un arrestato fra gli agenti, pensa che potrebb'essere un innocente ingiustamente sospettato; se passa una lettiga d'ospedale, pensa che ci potrebb'essere un moribondo; se passa un funerale, pensa che potrebb'essere quello di qualche persona a te cara.

E poi istruzioni e raccomandazioni relative ai ciechi, ai muti, ai rachitici, agli orfani, ai fanciulli abbandonati, a coloro che sono affetti da deformità repugnanti o ridicole, ecc. ecc; nessun possibile incontro è trascurato, e, per ognuno, una particolare norma circa il modo di regolarsi.

E poi sono contemplati tutti i possibili casi che possano occorrere: spegni sempre ogni fiammifero acceso che trovi sui tuoi passi, che potrebbe costar la vita a qualcuno; rispondi a chi domanda la via; non guardare nessuno ridendo, non correre senza bisogno... Tutto è previsto, il ragazzo non avrà tempo per occuparsi di nessuna faccenda propria, assorbito come sarà in continuazione da piccole cure umanitarie; sempre occupato a raccattare cartacce, spegner fiammiferi, sollevare persone sdrucciolate, divider litiganti, puntellare vecchi malfermi.

Un misto fra il giovane esploratore, il vigile stradale volontario, il netturbino dilettante, il pompiere d'occasione, la guida, il cicerone, l'interprete. E alla fine, nella lettera: «Rispetta la strada!». Anche la strada! E poi: «E studiale, le strade! Studia la città dove vivi. Se domani fossi sbalestrato lontano... il ricordo dei luoghi dove movesti i primi passi al fianco di tua madre... le vie dove provasti le prime commozioni...». E via, via; per concludere: «E quando la senti ingiuriare {la città), difendila! ». (Sempre a menar le mani!).
Passano i soldati. Predica sui soldati: «Voi dovete voler bene ai soldati, ragazzi. Sono i nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi uccidere per noi...». Giustissimo. Magari ci sono anche quelli che non andrebbero, se potessero.
Comunque, oggi queste cose fanno ridere. E magari farebbero ridere anche le osservazioni sulla bandiera. Sulla patria. «Retorica! », si dice. E della bandiera nessuno si ricorda più. E patria diventa un paese straniero, e perfino nemico. Magari si riverisce la bandiera d'un paese estero, e si irride alla propria. In Italia, beninteso. Che quelli di quegli altri paesi, queste cose le fanno fare e addirittura le esigono dagli altri; ma, per conto proprio, alla patria, alla bandiera (loro) credono.
Perfino durante le ore di lezione, il padre di Enrico, che evidentemente non ha altro da fare, continua ad aggirarsi intorno alla scuola. Scrive al figlio: «Aspettando l'uscita, io giro per le strade silenziose, intorno all'edifizio, e porgo l'orecchio alle finestre del pian terreno, chiuse dalle persiane». L'autentico Barbariccia di Tofano e del signor Bonaventura. «Da una finestra sento la voce d'una maestra che dice: "Ah! quel taglio di t! Non va, figliuol mio! Che ne direbbe tuo padre?" ».
Quanto agli svaghi, le uscite con la mamma sono fatte generalmente per portar biancheria a donnepovere, o a visitar scolaretti malati. Un giorno, gran festa. Scrive il piccolo Enrico nel suo diario: «Oggi ho fatto vacanza, perché non stavo bene, e mia madre mi ha condotto con sé all'Istituto dei ragazzi rachitici, dov'è andata a raccomandare una bambina del portinaio». Da cui si deduce:
a) che la visita all'Istituto dei ragazzi rachitici è considerato dalla brava signora una specie di ricostituente per bambini che non stanno bene;
b) che la bimba del portinaio del piccolo Enrico è rachitica. È ancora una pennellatina al quadro di zoppi, storpi, ciechi, gobbini, che circonda il piccolo e fortunato Enrico.
La maggior festa dell'anno, però, sembra essere il Giorno dei Morti. È l'unica a cui è dedicato un capitolo, sotto forma di lettera della madre. Natale, Capodanno, passano sotto silenzio. Un po' di spazio è dedicato al Carnevale, ma per farne racconto di disgrazie e oggetto di amare riflessioni. Del resto, questo è nel gusto del tempo. Ricordate il sonetto di Stecchetti: « Quando, lettrice mia, quando vedrai / impazzar per le strade il Carnevale, / oh, non scordarti, non scordarti mai, / che c'è gente che muore all'ospedale». Una specie di promemoria: uno vede impazzar per le strade il Carnevale e dice: «Ah, c'è gente che muore all'ospedale». Il degente all'ospedale vede attraverso i vetri della finestra impazzar per le strade il Carnevale, e pensa: «Meno male! C'è gente che si ricorda di noi».
Come se non bastasse il padre, anche la madre scrive lettere al piccolo Enrico. Una sui ragazzi rachitici; un'altra sul giorno dei morti.
Eppure, da tutto questo brulichio di storpietti, gobbini, zoppi, infelici, ciechi; da tutte queste prediche, viene fuori un mondo che tocca il cuore. Chi, ragazzo, non ha pianto per qualcuna di queste pagine, per qualcuno di questi personaggi? Un mondo intriso di lagrime, dove il sole quasi non brilla mai. Ma dove risplendono le idee di bontà, pietà, patria, bandiera nazionale, padre, madre, fratelli, scuola, maestri.
Oggi tutto è calpestato, irriso, contestato, come si dice. Non c'è più nessun Garrone, nessun Derossi, nessun piccolo patriota padovano, nessun Coretti, nessuna piccola vedetta lombarda, nessun piccolo scrivano fiorentino; o nessuno aspira ad esserlo. Si cercherebbero invano tipi come il tamburino sardo, l'infermiere di Tata, come il protagonista di «Dagli Appennini alle Ande». O magari ce ne sono, ma pare che facciano ridere.
Oggi, di tutto quel mondo ingenuo, se volete, perfino buffo, in certi aspetti, pare che conti soltanto e sia apprezzato soltanto il tipo Franti. Ricordate il personaggio Franti? «Franti, tu uccidi tua madre!», gli dice il maestro. «E quell'infame sorrise!». Oggi pare che sia apprezzato soltanto chi uccide, o vorrebbe uccidere, sua madre, suo padre, i fratelli, gl'insegnanti, la scuola, i vecchi, la patria.

                                                                   ACHILLE CAMPANILE

lunedì 28 novembre 2011

The great robbery


Se ne parla da qualche giorno, in coincidenza con l’arrivo del nuovo governo.
Abolire il contante: o per lo meno, limitarne l’uso a transazioni sino ad un certo limite (molti giornali, ed anche l’ex premier, ovviamente contrario, parlano di 300€). Eliminare il denaro contante porterebbe molti benefici, dato che il contante fa prosperare ogni tipo di mentalità e di illegalità e, suo tramite, si alimentano anche corruzione  ed evasione fiscale, dicono i favorevoli. Detto così, sembra il toccasana per una serie di questioni, nel nostro Paese, ormai endemiche.
Ma…
Ci sono anche dei “ma”, e non si tratta di problemi leggerini, anzi. Alcuni economisti liberal infatti sostengono che il denaro elettronico comporta una altissima pericolosità sociale: permette tecnicamente una possibile forma di espropriazione elettronica mediante flussi accentrati nel sistema bancario. E' una sostanziale delega formale del valore, anche del valore d'uso per noi tanto prezioso. Non a caso la circolazione elettronica attraverso la diffusione di bancomat e carte di credito è, per il sistema bancario, nient'altro che un moltiplicatore del denaro circolante, sulla base del quale viene moltiplicato diverse volte il capitale gestito che diventa, a sua volta, fittizio, speculativo, cartolarizzato e spezzettato in derivati, avente come base quello detenuto in forma elettronica. Non a caso sono state studiate le carte acquisti dei pensionati, come da noi le famigerate Social card. Quindi, la forma esclusiva del denaro elettronico è la fine del mercato e delle transazioni più o meno libere.
Per quanto mi riguarda, faccio un ragionamento molto elementare: sono a favore della riduzione della circolazione del contante per la semplice ragione della tracciabilità. Pagare tutto, come ad esempio si fa negli States, con la carta di credito, evita la noiosa prassi (o la pia illusione…) di richiedere lo scontrino fiscale; infatti l'acquisto è tracciabile sia per l'acquirente che per il venditore. Il problema vero sta nella mentalità; l'italiano è furbetto per natura, sono secoli che i furbetti fanno soldi e gli onesti stanno al palo. Oltretutto, una mia antica convinzione è che dalle nostre parti l'evasione fiscale sia voluta come forma di ridistribuzione sociale, almeno quella piccola, percettibile: scontrini, fatture et similia, quella cioè di cui siamo vittime (ma a volte anche complici) quotidianamente. Quella grande, che modella i debiti sovrani, i grandi fallimenti, la robbery vera e propria per intenderci, non viene mai percepita, pur essendo più che reale e strutturale, ed ha come strumento formidabile l'incontrollata ed incontrollabile forma elettronica.
Quella tra classi sociali, peraltro, è a dir poco odiosa: ma mentre in Norvegia, ad esempio, chi dovesse evadere le tasse viene considerato un criminale,  e non uno da cui prendere esempio, in quanto il suo non pagare le imposte comporta un danno verso la collettività, dalle nostre parti suscita ammirazione in quanto “furbo” o “vincente”. Fino a che non si raggiungerà un livello di consapevolezza simile a questa, ogni soluzione rappresenterà solamente un palliativo. Anche se a volte ne guarisce più il placebo che il principio.

giovedì 24 novembre 2011

Beata 'ncoscienza


Oggi, giorno di pioggia.
In quell’anta di mobile che apro raramente, un pacco di vecchie riviste. Tra cui una di informatica di fine anni 90, titolo che strombazza i magnifici destini che attenderanno i fortunati utenti che passeranno al neonato Windows ME, i prezzi in lire di prodotti ed accessori,  quando un masterizzatore interno da pc veleggiava sul mezzo milione, una stampante laser costava quanto uno scooter, e così via. Poi, e questo mi ha fatto riflettere,  un articolo in cui si magnificava il livello raggiunto dai programmi di dettatura vocale. Costavano solo qualche centinaio di $, necessitavano solo di macchine che costavano come una buona Panda di seconda mano,  esigevano solo una fase di apprendimento di qualche decina di ore, richiedevano solo una pronuncia priva di inflessioni dialettali (e guai ad avere il raffreddore) e sbagliavano pochissimo, solo una parola su 10, ma solo a patto di essere in un ambiente silenzioso e con un microfono “noise reduction”, che costava come un treno di gomme per la Panda succitata. 
Si abbozzavano, nell’articolo, le enormi complessità della cosa, bisognava fare in tempo reale la trasformata di Fourier, scomporre la frase tentando di individuarne le componenti ed era indispensabile un minimo di analisi semantica. Solo una decina di anni prima le prime sperimentazioni necessitavano di hardware dedicato che facesse tutti i conti, dal costo di decine di migliaia di $ (dei tempi); inoltre ogni lingua aveva particolarità proprie, quindi un programma che funzionava bene per l'inglese doveva essere pesantemente modificato per comprendere l'italiano, e non è detto neppure che alla fine non richiedesse pesanti interventi manuali di correzione.
Oggi, giorno di pioggia.
Mentre  sono in macchina -quindi un ambiente rumoroso- fermo nella classica colonna da “tutti in macchina perché piove”, ripenso a quel vecchio articolo, schiaccio –anzi sfioro- un tasto sullo schermo di un telefono Android da pochi soldi, e dico quello che voglio annotare. Nonostante non abbia fatto nessun tipo di training, nonostante io abbia pesantissime inflessioni dialettali, nonostante l'ambiente pieno di rumori, vedo scritto su schermo quello che dico, praticamente senza errori. Sfioro un altro paio di tasti, ed eccoli qua, adesso, i miei pensieri, belli (insomma…) pronti da condividere e discutere insieme.
Riflessione #1: troppo spesso sottovalutiamo la quantità di lavoro, fatica, ricerche e studi che sono stati necessari per avere queste cose, le diamo per scontate. Di conseguenza, non le valutiamo quanto meritano.
Riflessione #2: troppo spesso trascuriamo che noi facciamo con pochi soldi cose che una volta -ma neanche tanto tempo fa- richiedevano investimenti notevoli.
Riflessione #3: e quindi?

martedì 22 novembre 2011

test #2

Sto provando a traslocare, ma lungo è il cammino. Sono solo prove tecniche...scusatemi, ma sono impedito....

lunedì 21 novembre 2011

mercoledì 31 agosto 2011

Contromanovra

E va bene, lo Stato ha bisogno di soldi. Allora, modestamente, orizzontalmente, responsabilmente, ecco un po' di suggerimenti.

Lunedi
Aumento dell'IVA su tutti i generi di lusso: su richiesta della Lega, aliquota del 38% sui libri [chi li compra per leggerli sottrae tempo al lavoro], del 50% sulle opere del gruppo Editoriale "L'Espresso", ed un contributo una tantum di 1.500€ per chi detiene la parabola di Sky

Martedi
Il ministro Sacconi inserisce l'aumento della tassazione sulle elemosine ai poveri: il ministro Galan invece impone un contributo straordinario di 100€ a chi dà il becchime ai piccioni di Piazza san Marco. Vengono altresi abolite le pensioni alle vedove di guerra ("dato che non esistono le pensioni per le vedove delle missioni di pace, non vedo perchè mantenere questo previlegio", ha affermato il ministro La Russa) .

Mercoledì
Viene inserita una norma fiscale, secondo la quale tutti quelli che, a seguito di sentenza di tribunale, abbiano dovuto versare somme non inferiori ai 560 milioni di € a titolo risarcimento civile a cittadini italosvizzeri, siano esentati dal pagamento dell'Irpef per i prossimi centocinquant'anni, con la possibilità di estendere il beneficio ai discendenti. Cicchitto (PDL) nega che possa trattarsi di norma ad personam.

Giovedi
Il ministro Brunetta propone di chiudere gli uffici pubblici un giorno a settimana, e di conseguenza sospendere il pagamento delle retribuzioni per quei giorni di chiusura. Favorevoli Bonanni (Cisl) ed Angeletti (UIL)

Venerdi
Emendamento della Lega: raddoppiare l'IVA sulle vetture del gruppo Fiat costruite a Pomigliano e Termini Imerese, in quanto "costruite dai terroni": viceversa, dimezzarla per quelle costruite in Padania, in quanto "l'operaio padano è più bello, sano, istruito e laborioso". Ipotesi che non trova riscontro negli alleati: la sottosegretaria Santanchè abolirebbe tout court la Fiat, in quanto "le macchine del gruppo sono brutte".

Sabato
E' la volta della reintroduzione dell'ICI su orfanatrofi, cliniche oncologiche ed associazioni di volntariato non ecclesiastiche. Superbollo di 50€ per qualunque spesa nei supermercati ed ipermercati della Coop.

Domenica
Persino Iddio si riposò, ma i nostri infaticabili ministri ne sanno una più del diavolo: ecco Gelmini con la sospensione dello stipendio degli insegnanti nei mesi estivi, durante i quali le scuole non fanno lezione.

giovedì 25 agosto 2011

Tempo (ir)reale

Tra le meraviglie del Digitale Terrestre, nella versione per poveracci [cioè quelli che non si lasciano impietosire a versare l’obolo ai canali a pagamento, nonostante gli inviti del buon Amendola figlio che entra in casa con la grazia di chi abbia appena fatto a pezzi con un’ascia un  povero capitone] un discorso a parte lo merita RealTime, che dal nulla è già arrivato ad essere l’ottavo canale in chiaro più seguito d’Italia.
In effetti, quando ci si sfascia in divano e non si ha voglia di pensare, un canale del genere è una manna: programmi brevi, replicati più volte, che fanno non pensare, anzi, in un paio di casi aiutano a digerire pensieri contorti. Ne seguo alcuni [tengo famiglia…] ed il mio orecchiocchio si ricorda di questi:
Paint your life. Una biondina, l’aria complessiva da ciellina, armata di taglierine per il legno, cementite, cazzuola, trapano, rivettatrice, pennelli, ecc.ecc. ristruttura da sola interi appartamenti, rimette a nuovo mobili vetusti, ricicla qualunque cosa le capiti sotto mano, magari puntando uno sguardo accusatorio verso lo spettatore con un implicito “chi di noi non ha in cantina un divano di fine 800, un casco da parrucchiera, un tavolo da geometra, uno scatolone di piastrelle in graniglia?” . L’ho vista trasformare una cassettiera in lavabo, creare un armadio con le cassette da frutta, ricavare da una valigia di cartone, modello muratorino sulla Freccia del Sud negli anni 50, una cuccia per cani [a condizione che siano molto magri, mi sa].
I suoi lavori non sfigurerebbero nell’arredamento di una baracca sulla striscia di Gaza, ma lei è così contenta.
Il Boss delle Torte. Sembra la versione, ambientata in una pasticceria, di un film di Scorsese: abbiamo un pasticcere italoamericano, Buddy, circondato da italoamericani [i suoi colleghi ed amici hanno nomi tipo Frankie, Vinnie, Fonzie, Al, Carlos] che sembrano gangster sotto copertura, proprietario, appunto, di una pasticceria nei sobborghi di New York. Nel suo negozio si sfornano torte dalle dimensioni e forme più incredibili, il cui gusto deve essere comunque discutibile. Però è divertente seguire la preparazione: ogni volta, nel laboratorio, gli animi si riscaldano ed esplodono risse [non solo] verbali tra i vari pasticceri, solitamente sedate dal mitico Buddy, la cui democratica filosofia è "Qui dentro il capo sono io, quindi si fa quello che dico io!".Tra l’altro, nel doppiaggio la voce di Buddy è tremendamente simile a quella di De Niro-Al Capone in “The Untouchables”. A conferma che….
Cerco casa disperatamente / Vendo casa disperatamente. In "Cerco casa" un'agente immobiliare molto milanese   -bella donna, ma che da piccola deve essersi vestita per Carnevale da  Crudelia De Mon, ed ancora non ha smesso il trucco -  gira l'Italia accompagnando dei tizi scandalosamente ricchi alla ricerca della casa dei loro sogni. Mediamente il budget degli acquirenti parte dal milione di euro in su.  Solo una volta ho visto una coppia di sfigatelli, due fidanzatini 25enni che, poveri, avevano a disposizione “solo” 600.000 euro per la loro prima casa. Anziché chieder loro dove spacciassero per avere, così giovani e solo per la casa, una cifra pari ad un trentennio di lavoro delle persone medie, Crudelia li ha apostrofati con un “Beh, il budget è decisamente risicato, è praticamente impossibile trovare una casa che costi così poco” . La versione "Vendo" è molto simile, ma i protagonisti sono appunto i venditori, che propongono appartamenti con qualche difetto più o meno grave (bagni da rifare, parquet malmessi, infiltrazioni, cucine adatte solo per puffi, etc.etc.). Per gli aggiustamenti la De Mon si rivolge ad architetti perennemente in sospeso tra la genialità ed il daltonismo.
Cortesie per gli ospiti. Un trio di personaggi   -uno chef di professione, un esperto di bon ton, ed una interior designer - entrano in una casa in cui si abbuffano come oche da ingrasso, toccano tovaglie ed arredi con una punta schifata, dato che qualunque cosa non sia bianca è “cafonal”, trovano estremamente maleducato il fatto che il portasale&pepe non dialoghi coi quadri alle pareti, ed alla fine segano a metà la gente che li ha ospitati con frasi del tipo: “un consiglio? Non faccia più entrare sua moglie in cucina” o “i mobili della sala sono molto prevedibili”: ci vorrebbe che qualcuno mettesse i sanitari in sala e il letto in cucina, tanto per rendere meno noioso l’arredamento.  Verrebbe voglia di invitarli a casa, ed appena sicuri che tutti e tre sono sullo zerbino, far aprire sotto i loro piedi una voragine. Solo che poi, durante la caduta, lo chef direbbe che gli arbusti sulle pareti sono poco digeribili, l’esperto di bon ton direbbe che è poco educato sotterrare gli ospiti da vivi e la designer direbbe che nella voragine l’illuminazione non è trendy.
Little Miss America. E' un programma terrificante in cui mamme e papà rigorosamente ‘mmericani , tra l’altro nella maggioranza dei casi oggettivamente bruttarelli, costringono le loro bambine, persino ancora in fasce e che "sfilano" in braccio ai genitori, ad atteggiarsi a pornostar, con vestiti assurdi e decisamente succinti, parrucche, trucco esagerato che neppure ai compleanni di Casoria….Ecco, chi ai miei tempi usava il termine “americanata”, troverebbe qui pane per i suoi denti.  
Ma come ti vesti. Alias: come trasformare una ragazza normale, spesso carina o con un fisico perfetto,  e dal guardaroba assolutamente comune,  in una similzoccola pronta a partecipare alle “cene particolarmente eleganti” di una celebre villa brianzola. Lo conducono un tizio, Enzo, che ad occhio fa sembrare il GayPride una vecchia cartolina in biancoenero;   ed una biondina platinata, Carla,  che è tutta un fiorire di alliur, tricò, autluk per serate sciccose, animaliè….Una volta c’era una ragazza che non era affatto grassa, magari un po' tondetta, ma nell'insieme proporzionata: l’hanno trattata come un’ obesa deforme e senza speranze. La tipa si stava mangiando un bombolone al bar, entra Carla, la guarda come se al posto della pasta avesse visto un topo morto, e le urla dietro che “sono troooopppeee calorieeee!!!”. Entrambi, poi, non considerano neppure che una poveracrista esca di casa senza un tacco almeno 12. A loro discolpa, c’è da dire che le vittime della trasformazione sono segnalate da amiche in odore di astinenza sessuale,  o da fidanzati che accusano la propria partner di sciatteria per poter accampare scuse per guardare le altre donne: un bel bestiario.
Cucine da incubo. Il protagonista è un famoso chef inglese, Gordon Ramsay, classico biondino con la faccia da cagacazzo [scusate il francesismo] che cerca di salvare un locale dal fallimento grazie alle sue idee, sia riguardo all’organizzazione che al cibo ed all'arredo stesso dei ristoranti. La prima mazzata è la pulizia, che a quanto pare lascia molto a desiderare, al punto che guardando una puntata mi sono tornati su dei peperoni grigliati che mangiai a Londra nel 1979. In ogni puntata lui arriva con quest’aria da nazistello, scoppiano liti ferocissime tra lui ed i proprietari e/o chef: Ramsey deve aver fatto studi diplomatici con Mourinho e Sgarbi, ma i titolari  non hanno idea di dove stia di casa l’umiltà. Cavolo, gente che sta fallendo miseramente, che prepara piatti al cui confronto i sacchetti per la raccolta differenziata dell’umido del mio condominio sembrano menù a 5 stelle, si permette di alzar la voce con uno dei più Michelinstellati chef del mondo? O sono scemi, o sono ben pagati per sembrarlo.
Però, guai, GUAI!! a chi mi tocca “Cucina con Ale”: una piccola parte della mia sopravvivenza alimentare la devo alle cose che ho imparato a cucinare da lui. Che sarà un po’ “cartone animato vivente”, come dice mia figlia, o uno “chef fighetto” come dico io, ma regala l’illusione che cucinare bene sia facile. Ed a volte, con le dritte giuste, lo è davvero. E senza neppure il bicarbonato…

martedì 16 agosto 2011

Una manciata di sassi.

Un mese fa aspettavamo un disco nuovo di Amy, ed io non avrei mai immaginato che avrei incrociato alla Malpensa le sue fans italiane di ritorno dal funerale, nello zaino il triste trofeo di caccia, un capo di quel vestiario che i genitori dell'ultima carcassa scarnificata dallo show system dal business ha regalato a chi aveva vegliato per strada. Come ci tenevano, al ricordo.
Un mese fa noi "eravamo usciti dalla crisi prima e meglio degli altri": azzo, avrebbe detto il Vate.
Un mese fa lei era solo un nome della "scuderia", qualche foto sui giornali "in tiro", truccata e plastificata come tutte quelle che saltellavano sul pollo anziano da spennare. Là, in sala d'attesa con mamma, papà e fratello-bodyguard d'ordinanza, faceva quasi pena: una delle rare volte in cui ho pensato che in certe famiglie concimano i figli col letame. Roba da rivalutare persino i [già disprezzati] genitori di Amy.
Un mese fa sapevo che al mare, se ti sporchi di catrame, la maniera migliore per pulirti era la carta oleata della mortadella. Nella mia ragnatela, ignoravo che la carta oleata, come la carta carbone o la carta velina, è sparita dalla circolazione ben prima dei dinosauri.
Un mese fa coltivavo la pia illusione che, se fossi rimasto sotto un ombrellone a leggermi un libro, avrei potuto solo coltivare me stesso: invece, alzare gli occhi e trovarmi di fronte un sosia minorenne di Jim Morrison è stato un colpo. Il fatto poi che i genitori si scambiassero la copia in tedesco di "Rolling Stone" lasciava poco spazio alla fantasia e molto al culto del Mito.
Un mese fa non avevo ancora letto "Corpi di scarto" di Elisabetta Buciarelli: lei è bravissima, è una che scrive col cuore e con la rabbia, talmente coinvolgente fino al punto che, leggendo il libro, avvertivo la puzza della discarica, non solo materiale ma soprattutto morale. La sosta all'autogrill al ritorno a casa dava corpo alla suggestione.
Un mese fa non avevo ancora visto "20 sigarette", film testimonianza [drammatica] di Aureliano Amadei sull'attentato di Nassirya. Dubito lo trasmetteranno in prima visione sulle reti Mediaset o su Raiuno.
Ultimo sasso: una persona a me molto cara ha scritto che ultimamente scrivere post è come mettere un messaggio in una bottiglia. E' la cosa più intelligente che abbia letto nell'ultimo mese, per il semplice fatto di essere vera in un mare inquinato e mefitico di silenzi e reticenze, di piccole e grandi ipocrisie, di convenienze e connivenza. Musica, maestro!

martedì 28 giugno 2011

Dio salvi i Queen!

“E’ questa la vita reale? E’ solo fantasia questa? Intrappolato in una frana, non c’è scampo dalla realtà. Apri gli occhi, guarda in alto il cielo e vedrai: sono solo un povero ragazzo, non mi serve compassione perché sono una veloce apparizione un po’ su, un po’ giù; comunque soffi il vento, a me non importa molto, a me. Madre, ho appena ucciso un uomo, gli ho puntato la pistola sulla testa,  premuto il grilletto, ora è morto. Mamma, la vita era appena iniziata, ma ora sono andato e l’ho buttata via, mamma, uuu, non intendevo farti piangere: se domani a quest’ora non sono tornato vai avanti, vai avanti come niente fosse. Troppo tardi, è arrivato il mio momento, mi fa rabbrividire fin nella spina dorsale, il corpo mi duole per tutto il tempo. Ciao a tutti, devo andare, devo lasciarvi e affrontare la verità (…)Non voglio morire, a volte vorrei non essere mai nato. Vedo la piccola sagoma di un uomo, Scaramouche, Scaramouche, vuoi ballare il Fandango? Tuoni e saette, che paura, Galileo, Galileo, Galileo, Galileo, Galileo, Figaro – Magnifico.
“Ma sono solo un povero ragazzo e nessuno mi ama”“E’ solo un povero ragazzo di famiglia povera, risparmiategli la vita da questa mostruosità” “Non me ne importa, volete lasciarmi andare?” “Bismillah*! No, non ti lasceremo andare – lasciatelo andare” (…) “Mamma mia, mamma mia – mamma mia lasciami andare, Belzebù ha messo da parte un diavolo per me, per me, per me. Così pensate di potermi lapidare e sputarmi in faccia, così pensi di potermi amare e lasciare morire, oh baby – non puoi farmi questo, baby, devo solo uscire – devo solo uscire da questo posto. Niente è davvero importante,chiunque può capirlo, niente è davvero importante, niente m’importa davvero, comunque soffi il vento”
*nel nome di Allah misericordioso.

[Bohemian Rhapsody – Queen]

La Londra di metà anni ’70 era, musicalmente, una città strana: smarrita per sempre la rivoluzione beatlesiana, guardinga e diffidente verso quei gruppi come Stones o The Who, “americanizzati” e quindi visti ormai “alla frutta”, la mania in arrivo era il “glam”. Che avesse le forme più raffinate di Bowie & derivati, o la veste più popolare di personaggi come Marc Bolan  [coi suoi T.Rex] o Gary Glitter,  si era adagiata nella quiete di un sound “pulitino”, artisti che colpivano prima l’occhio poi la fantasia, grandi canzoni da classifica e poco più. Non a caso il grande filone del rock romantico o la furia devastante di Led Zeppelin o Deep Purple avevano maggiori riscontri [e seguaci] fuori dall’Isola. In questo scenario, arrivano tre musicisti legati dalla passione per la musica [uno di loro rinuncerà anche ad una imminente laurea in astrofisica: ma questa è un’altra storia…], trovano sulla loro strada un personaggio carismatico e poetico, che darà loro il la per una sperimentazione musicale a tutto tondo, che cattura l'ascolto e il respiro di chiunque si avvicini. Il gruppo si chiama “The Queen”: aveva pubblicato già tre  album rockettari, con cose buone sparse qua e là, ma nulla che apparisse sopra la media.  La svolta è del 1975: un titolo preso a prestito da un vecchio film dei Fratelli Marx, "A Night at the Opera". Molto più che un disco "importante"; è un'esplorazione a tutto tondo della Musica, quella con la M maiuscola. E’ il capolavoro di un gruppo che a soli tre anni dalla sua nascita ha trovato quel delicato equilibrio alchemico che riesce a unire personalità artistiche molto diverse ed allo stesso tempo complementari. Disco dominato dalla schiacciante ispirazione di Freddie Mercury, qui al pieno delle sue possibilità espressive, che elabora le personalità dei compagni di viaggio grazie alle quali sperimentare le commistioni sonore più stravaganti. Il disco parte con un irrequieto assolo di pianoforte che accompagna il pensiero verso un crescente caos di sirene e aride note di chitarra; al culmine del suono, tutto si ferma e inizia la prima canzone, "Death on two legs", dedicata al precedente manager del gruppo. Canzone cattiva, acida in note e testo, batteria aggressiva e “sporca”, una chitarra che suona come un lamento.  “Mi succhi il sangue come una sanguisuga, infrangi la legge e predichi, mi opprimi il cervello finché fa male. Hai preso tutti i miei soldi e ne vuoi di più, vecchio mulo mal guidato con le tue regole cocciute, con i tuoi meschini amiconi che sono stupidi di prima categoria (…)Sei solo un vecchio venditore ambulante, hai trovato un nuovo giocattolo per sostituirmi? Mi puoi affrontare? Ma ora mi puoi baciare il culo, ciao ciao”.
Incredibile, poco più di un minuto, la successiva "Lazing on a Sunday afternoon": quasi un brano da operetta, compresa l’intonazione lirica di Mercury. Anche visivamente, l’idea era quella di giovani (neo)dandy a spasso nella campagna inglese in bici, magari con la t-shirt sotto la giacca… Poi, il simpatico sberleffo di  "I'm in love with my car", scritta e cantata da Taylor: il coro a sottolineare la voce del solista, un violino che gioca a fare la chitarra elettrica, e la chitarra suonata a mo’ di violino, rumori di motore che invadono tutta la canzone; "You're my best friend", dolce dichiarazione di amicizia che suona un po’ come certi singoli della Motown. E “39”, cui è legato un mio ricordo personale, di schitarrate e tamburelli in spiaggia tra amici, un tono country, l’ideale per fare un po’ gli scemi perdendosi (invano) negli occhi di una ragazza che, diciamo così, non si poneva proprio il problema.
Si ritorna al rock con "Sweet Lady", con le schitarrate iniziali, Freddie con una voce sempre corposa, ritmo non esagerato ma stuzzicante: decisamente da riscoprire (io all’epoca la saltavo, beata incoscienza…). Poi, il tuffo nel passato, ed è subito "Seaside Rendezvous": una canzone in bianco e nero, tra tip-tap. fischiatine,  Freddie che dal vivo si esibiva con la parrucca di riccioli biondi stile Shirley Temple. Divertimento allo stato puro, e non solo per la band. Ma la sperimentazione dei Queen non lascia spazio, ecco arrivare "The Prophet's Songs": gioiellino firmato da Brian May, otto minuti di tutto, dai cori gregoriani agli inni medievali, dal rock dilatato alla riflessione mistica, dal canto a cappella all’assolo acutissimo di Mercury.  Qualunque altra band, con gli spunti buttati in questa canzone, ci avrebbe fatto un intero album. Splendida quanto trascurata.
"Love of my Life" inizia. Chiudete gli occhi, ed aprite l’anima:  pianoforte morbosamente romantico, un testo che, tra le parole e (soprattutto) il modo in cui vengono cantate, ti sega a metà, un grido di amore disperato e rimpianto, una supplica come una carezza, note di chitarra come quei pensieri che ti arrivano all’improvviso addosso e ti fermi a sorridere senza un motivo, ma ti senti meglio.
Terz'ultima canzone del disco, "Good Company", classica canzone alla Brian May, carina, briosa il suo giusto,  da fischiettare in bici mentre torni a casa col pane caldo. Un attimo di relax prima del capolavoro assoluto della band, "Bohemian Rhapsody" . Di cui non parlerei:  ogni parola aggiunta sembra uno spreco, un oltraggio, come guardare la Pietà in San Pietro dietro la vetrata dopo le martellate del pazzo. Hard rock, lirica, canto popolare, tutto concentrato nei cinque minuti che sembrano cinquanta, la sensazione di attraversare,  come il protagonista della canzone, mondi e situazioni prima sconosciuti, carnefice e vittima di una schiera di diavoli affamati della sua anima.
Per chiudere, "God Save the Queen", versione particolare, e non a caso,  dell'inno nazionale Inglese, chiude il disco, come farà con tutti i concerti del gruppo. E ti lascia il dubbio addosso:  Freddie Mercury avrebbe voluto diventare un giorno, “da grande”,  Regina d’Inghilterra, od almeno dei suoi spiriti buoni?

venerdì 17 giugno 2011

Quattro Si

Quest’anno giocavo sul sicuro, dopo aver saputo che avrei avuto un seggio al femminile: al limite, al lunedi sera avrei potuto avere anch’io “le mie cose”. La tensione, altissima, era dovuta ad altre cause: in primis, il raggiungimento del quorum. Ore ed ore di volantini, di mail spedite a chi sapevo incerto, di banchetti davanti al supermercato, e le fughe di fronte alla pioggia improvvisa, di colloqui coi vicini di casa, le amiche di mamme e suocere, con gli amici dei figli, ecc.ecc. , le 72 ore dentro la scuola sede del seggio: tutto questo non poteva finire nel nulla, non un’altra volta ancora.

Sabato. Arrivo nella scuola, le solite sei sezioni, un clima, tra presidenti, quasi da primo giorno di scuola mentre arrivano anche gli altri componenti dei seggi. Gente che si conosce, saluti, battute. Ci sono un paio di dipendenti comunali che probabilmente sono in questo seggio dai tempi del referendum Repubblica-monarchia, perché conoscono tutti e tutti li conoscono. Poi i Carabinieri, che mi chiedono i documenti e compilano un verbale in cui sento risuonare un “ivi residente” che suona come un viaggio nel tempo, un po’ come le matite copiative, od il timbro, che è proprio uno  -non “come”, proprio “uno”-  di quelli che si vedono nei film di Sordi o Totò, o la scritta “lembo da umettare” sulle buste. E ben dodici nomine di rappresentanti di lista: ovviamente, voteranno nel mio seggio, quindi un quorum del 3% in partenza è già assicurato. Validazione delle schede, scrutatrici bravissime, veloci ed efficienti –ovvio, sono donne- ed il sabato si chiude qui, si infila (quasi) tutto in buste, chiuse e firmate; si sigillano e firmano le urne; si mette lo scotch perfino sulle finestre, sulla porta chiusa a chiave, chiave che mi devo portare a casa: nessuno può entrare nella notte. Cosa dovrebbero entrare a fare, poi?
Discuto col vigile urbano  -a proposito di fuga dei cervelli: fisicamente una specie di Dino Risi ma col cervello di Gasparri, avrei preferito il contrario-  sulla opportunità di lasciar parcheggiare dentro il cortile della scuola o meno [lui sostiene di no, io ribadisco che chi accompagna elettori fisicamente impediti deve essere agevolato, che non è un “favore” ma un “diritto”: poi dopo che ho contribuito ad organizzare il Taxiquorum ci mancherebbe altro…]. Appuntamento per la domenica mattina, tutti qui alle 7.50 che almeno abbiamo il tempo di mangiarci le brioches calde che come presidente gentilmente offrirò alle mie vittime…

Domenica. Finalmente, ore 8 e si vota: in verità, c’erano due elettori che evidentemente credevano si votasse dalle 7, mi hanno guardato con odio quando ho detto loro di aspettare: mi sembrerà ovvio farli partecipi delle pastarelle…Spalanchiamo le finestre per il caldo (come faranno i ragazzi nelle ore di scuola?), e già alle 9 ci sono i primi cenni di coda, ne  traggo buoni auspici. Mi emoziono quando viene a votare un signore, classe 1917, che mentre ritira le schede racconta del suo primo voto da cittadino libero, proprio quello del referendum Repubblica-monarchia, del viaggio notturno con l’attraversamento clandestino a Ventimiglia, col dubbio atroce di essere arrestato come disertore: difficile non sentirsi quella improvvisa sensazione di umido a solcare la guancia. Lo abbraccio, lo ringrazio, sa di libertà conquistata a caro prezzo. Andatevene al mare, coglioni, non meritate un paese civile.
Porto il fonogramma con l’affluenza delle ore 12 alla “comunale”: il mio 22% mi sembra addirittura esaltante, mentre lei ne approfitta per chiedermi se io sappia il nome del 22 orizzontale “musicista de L’Orfeo”. Intanto, uno dei CC ha preso di punta una mia scrutatrice, sono lì che caffeggiano alla macchinetta: l’armonia si spezzerà alle prime luci dell’alba del lunedi, quando viene a votare un trans: lei lo ammira per lo smalto delle unghie, mentre lui userebbe un lanciafiamme. Tra un elettore e l'altro si chiacchiera: ovviamente, essendo il più anziano, mi metto a raccontare un po’ di aneddoti, compreso quella scheda nulla di qualche referendum prima, dove il quesito originale era stato cancellato e sostituito da un lapidario “Ti scoperesti la scrutatrice bionda?”.
Le ragazze ridono, non indago sulle reazioni ad un eventuale ripetersi della causa di nullità del voto….
Ed alle 20.35 scene di giubilo: nel mio seggio si è raggiunto il quorum. Tra l’altro, il mr. 50%+1 è un ex consigliere comunale pidiellino: non sto neppure a raccontare il sapore che aveva la sigaretta che mi sono andato a fumare subito dopo.
Invece, alle 21.45 scatta l’Unità di Crisi: una elettrice con passeggino e neonato dalla voce particolarmente acuta al seguito ha dimenticato di ritirare cellulare e documenti. Una delle Maxi’s Angels  [così le ho ribattezzate: chiamarle “badanti” mi sembrava umiliante…] parte di scatto, la raggiunge mentre il groviglio di ruotine e pupo piangente oppone strenua resistenza all’essere alloggiato sul divanetto posteriore di una spettacolare Giulietta rosso Alfa. Impariamo così che il marito è incollato dalle sette di sera a guardare il GP: farò in tempo a vederne anch’io la fine, sperando che il referendum non faccia la fine delle Ferrari.

Lunedi. Bene: se persino il ministro degli Interni dice che il quorum si raggiungerà, l’aria frizzantina del mattino ha un sapore ancor più dolcedolce. Alle 7 arrivano i primi elettori, una coppia di ragazzi che evidentemente ha passato la notte al mare. Mi colpisce il fatto che abbiano una trentina d’anni e non più di quattro o cinque timbri sulla tessera: se mia figlia a 23 ne ha già collezionati 8, significa che arrivano anche dal mare dell’astensionismo. Decisamente incoraggiante. Mattina tranquilla, flusso incessante, alla fine i miei votanti saranno intorno al 68%; in termini assoluti, persino due in più rispetto alle Regionali di un anno fa. Mi colpisce la storia di una delle rappresentanti di lista: quando leggo che è di Lauria, e dico “ma è il paese di Rocco Papaleo” lei si apre in un sorriso, mi chiede se ho visto “Basilicata coast to coast” ed alla mia risposta affermativa –e con moolto gradimento- si illumina in un sorriso che definire solare è persino riduttivo. Abita qui in centro, è fidanzata con un pizzaiolo siciliano che abita a Bologna e gestisce una pizzeria in provincia di Modena: melting pot in salsa mediterranea, of course.
Ore 15: si scrutina. Nessun problema particolare, anzi, un piacevolissimo sottofondo autorizzato dal Presidente me medesimo, la scrutatrice-pianista ha sull’Ipad uno spettacolare “Piano Concerto opera 33” di Richter, ed è la prima volta che si fa lo spoglio ascoltando musica. E’ anche la prima volta che in 35 anni di seggio non trovo neppure una scheda bianca: bene, molto bene. I Si che variano dal 97,7% per abrogare il nucleare al 90,1 per cancellare il legittimo impedimento (e ripenso al mio Mr. Quorum: non più di tre pugnalate, ovviamente alle spalle, ma senza infierire).
Fine, si chiude: dalal radio notizie trionfali sul quorum raggiunto, restituisco la cassa di plastica [aka “la bara”] ai funzionari del comune e mi godo la vittoria. Arriva l’sms che annuncia la festa in piazza: ci andrei anche volentieri, se fossi sicuro della assenza di chi, nel mio partito, ancora una settimana fa invitava a votare No per l’acqua. Mi rivedo l’Albertone ed il suo “usscia via, brutta bertuccia!” : sulla strada di casa c’è una eccellente gelateria artigianale,  un cono ricotta&fichi mi semra una giusta celebrazione ed un adeguato risarcimento morale. Abbiamo vinto, e chi se lo scorda più, quel gelato?