Sia ben chiaro:

Solamente una persona con gravi problemi psichici potrebbe ritenere questa accozzaglia di pensieri e parole come una testata giornalistica,anche perchè viene aggiornata senza alcuna periodicità.

NON PUO'PERTANTO CONSIDERARSI UN PRODOTTO EDITORIALE EX L.62 7/3/2001.



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giovedì 22 dicembre 2011

Il tacchino di Natale

di Achille Campanile (in "Manuale di conversazione" - Rizzoli 1973)
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Il tacchino va bene per il Natale, 
ma il Natale non va bene per il tacchino. 
(Proverbio inesistente)


"I gesuiti, per opinione generale, introdussero il tacchino in Francia". 
Questa, in termini concisi, direi addirittura secchi, la notizia nuda e cruda tramandataci dalla storia. 
Intanto sul fatto che sia opinione generale, ho i miei dubbi. Per conto mio non ho nessuna opinione in proposito. Ho trovato l'asserzione nell'opera "Gli uccelli" di Figuer e per controllarla ho interrogato amici e conoscenti, su chi avrebbe introdotto il tacchino in Francia. Tutti, senza eccezione, si sono dichiarati incompetenti a rispondere. Perfino i cuochi. 
Comunque, diamo per buona la notizia. Da essa balzano anzitutto alcuni interrogativi: come mai i gesuiti introdussero il tacchino in Francia? che rapporti avevano quei religiosi con questo animale? e come mai, prima d'esservi introdotto dai gesuiti, il tacchino non era mai entrato sul suolo della nostra sorella latina? Dire per mancanza di passaporto, sarebbe voler scherzare. Come lo sarebbe dire che non vi erano ammessi i tacchini, perché è la terra dei Galli. 
Piuttosto, c'era forse qualche rete protettiva lungo i confini della Francia, appunto per impedire che il tacchino sconfinasse abusivamente? 
In qualunque modo si sia svolta la faccenda, immaginiamo la scena a cui allude la storia. Siamo presso il confine francese. Confine colla Svizzera, colla Spagna, colla Germania o il Belgio? Oppure con l'Italia? 
Questo, la storia non lo dice, ma la differenza conta. Voi capite che, se il tacchino entrò dalla Germania o dal Belgio, forse era accompagnato da fegato grasso tartufato, e quasi certamente da patate e da cavoli. Laddove, se la Spagna fosse stato il luogo di provenienza, il suo corteggio sarebbe stato a base di pomodori o di peperoni. Innaffiato da vino, se proveniente dal Sud o dall'Ovest; da birra, se da paesi fiamminghi. 
Dunque, sarebbe importante sapere da dove fu fatto il colpo. 

Escludiamo l'Italia, in quanto resterebbe poi da sapere da chi e come il tacchino fosse stato introdotto presso di noi. Ci sarebbero gli altri paesi. 
Immaginiamo la Spagna; i Pirenei. Zona di contrabbandieri che ben si adatta a un colpo di mano del genere e da all'impresa un colore romanzesco, uso Carmen. E' notte. Fischia il vento fra quelle gole selvagge. I gesuiti, che si sono proposti d'introdurre questo animale da cortile in Francia, cercano di fargli passare la frontiera spingendolo con giunchi, stuzzicandolo perché cammini. Il tacchino pettoruto incede e, dietro, la schiera dei religiosi. 
Ora, due sono le ipotesi: l'introduzione del tacchino avvenne palesemente o clandestinamente, visto che si trattava d'un animale ancora ignoto in Francia? 
Nella prima ipotesi bisogna immaginare l'arrivo al posto di frontiera. I doganieri vedono lo strano animale in compagnia d'una compagnia di gesuiti. Qualcuno ha un piccolo moto di timore. 
"E questo che cos'è ?"
"Il tacchino."
"A che serve ?"
"A farlo arrosto"
"Ohibò!"
"E' ottimo a Natale e a Capodanno."
"Bè, passi, allora."
Nella seconda ipotesi, bisogna immaginare i gesuiti che aspettano il calar della notte e indi s'avventurano a passar la frontiera clandestinamente con l'animale di contrabbando. Quante peripezie, quanti patemi, prima d'arrivare al mal passo! E finalmente, zitti!, ci siamo. In punta di piedi i gesuiti, fra le gole dei monti, passano in fila indiana, spingendosi avanti il tacchino. Non era prudente lasciarlo indietro, visto che poteva sperdersi o essere acciuffato da qualche malintenzionato. Proprio a un passo dalla frontiera la bestiaccia, manco a farlo apposta, si mette a fare: glu glu glu... 
Maledetto. I religiosi cercano di tappargli il becco. Cosa non facile. Ma sì! Quello starnazza. Rimbombano nelle tenebre notturne tre o quattro spari, i gendarmi confinari sono in allarme, s'odono di qua, di la, passi concitati nel buio, grida di "Chi va là ?". I gesuiti, immobili nelle tenebre, trattengono il respiro. Uno s'è ficcato sotto la tonaca il maledetto gallinaceo e gli tiene la testa avvolta nella gonna, perché non s'oda. Il tacchino si dibatte, ma viene trattenuto. Finalmente, torna la calma. Il pericolo è passato. In punta di piedi, i gesuiti riprendono il cammino, col tacchino avvolto in panni, a rischio di soffocarlo. 
Sia lodato il cielo, la linea è superata. Siamo in terra di Francia. I gesuiti lasciano libero l'animale e proseguono liberi, felici. 

Il tacchino è stato introdotto in suolo francese, nella terra della libertà, dove l'attende la padella. 
Ma forse, tutto questo non è che fantasia. Forse l'introduzione avvenne via mare, più probabilmente, poiché credo che il tacchino provenisse dall'America e che in Europa fosse ancora ignoto. 
Doveva essere il Sei o il Settecento. L'epoca dei galeoni, dei pirati, dei tesori nascosti nelle isole disabitate. Allora viaggiare per mare era un'avventura. 
Quante peripezie nella lunga traversata, durante la quale più volte l'incolumità del gallinaceo dovett'essere messa in pericolo dalle tempeste, dalle sollevazioni di un equipaggio poco docile e soprattutto dallo scarseggiare delle vettovaglie. Per tacere delle occulte e subdole mire del capitano in persona, desideroso magari d'offrire un pranzetto en tete a tete a qualche bella passeggera avventurosa, uso Manon Lescaut.
Mancavano i viveri a bordo. Equipaggio e passeggeri, deportati e deportate, languivano famelici nelle stive, fra tutte quelle lanterne, fra quelle botti, quei barili, quelle botole, scale, scalette, gambe di legno, e quegl'ingombri d'ogni specie che rendevano oltremodo difficile la circolazione sulle navi d'una volta e che, dopo alcuni secoli, dovevano rivelarsi provvidenziali per gli autori dei film di pirateria e filibusteria. 
Il capitano sa che c'è a bordo, chiuso in una gabbia, il misterioso pennuto. Un'occhiata d'intesa al cuoco, quasi certamente cinese. Un lampo di risposta sinistro, nello sguardo di questo. E appena cala la notte, malgrado la presenza a bordo di alcuni misteriosi personaggi - possibilmente con almeno una gamba di legno - un'ombra armata di coltello scivola nelle tenebre verso la stiva, si cala nel boccaporto. 
Un attimo d'attesa e subito uno starnazzare d'ali e un gorgoglio disperato, strozzato immediatamente. Il colpo e fatto. Tra poco nella cabina del comando sarà straziante e splendido vedere la salma del tacchino dorata dal forno, stesa immobile supina fra quattro candele, esalante quel profumo appetitoso, sulla tavola del capitano riccamente imbandita. E la bella deportata cederà le proprie grazie in cambio d'una dorata fetta del saporito gallinaceo. Eh, si potrebbe scrivere un romanzo sulla traversata oceanica del tacchino! Un romanzo nel quale converrebbe dare il debito posto anche alle proteste dei gesuiti, ai loro mille sottili artifizi per salvare il pennuto dal coltellaccio della cucina e portarlo sano e salvo in Francia. 
Dove evidentemente avevano intenzione di fargli fare la stessa fine, altrimenti non si spiegherebbe tutta la loro smania d'introdurlo nel vecchio mondo. 

Ma, ora che ci penso, perché ciò potesse avvenire, come avvenne, occorre che l'episodio della traversata oceanica relativo al pranzo offerto dal capitano alla bella deportata, a base di tacchino arrosto, si concluda in senso sfavorevole alle mire del capitano stesso, e' che il tacchino, per qualche drammatico avvenimento che potrebbe dar materia ad un interessante capitolo, sfugga al coltello del cuoco cinese. 
Allora, sorvoliamo su tutto ciò, per arrivare subito alla banchina del porto di Le Havre o di Marsiglia. E una mattina d'inverno nebbiosa e triste. Da qualche minuto è arrivato il pacchebotto d'oltre oceano e si sta procedendo alle operazioni di sbarco. Una compagnia di gesuiti s'appresta a scendere la scaletta, tutti stretti l'uno all'altro, come per nascondere qualcosa. Il doganiere li conta, controllando il registro di bordo:
uno... due... tre... Si, sono tutti, non ne manca e non ne cresce nessuno. 
Avanti. I gesuiti passano. Nel momento cruciale, proprio sotto gli occhi del controllore, s'ode un improvviso glu-glu soffocato. 
Che è? Chi è stato? Il doganiere guarda il gruppo con aria sospettosa. Non conosce ancora il tacchino, non sa che quello è il suo verso. Crede si tratti d'uno sberleffo. Fissa severo i religiosi, che passano seri, un poco pallidi. 
L'hanno scampata bella. Ma tutto è bene quel che finisce bene. Ora fortunatamente il pericolo è  passato, il tacchino è in Francia, cioè in Europa, e comincia per lui la sua seconda vita: la fulgida era in cui verrà sempre più onorato nell'intiero vecchio mondo, oltre che nel nuovo, a Natale e a Capodanno. 
Certo, dovett'esserci anche un che di gesuitesco, nell'introduzione. Forse essa avvenne mercè qualche sottile accorgimento. Forse si finse d'introdurre altro, magari un semplice gallinaccio, un cappone. Forse si spacciò  il tacchino per un grosso colombo. O per una delle aquile romane, di ritorno. 
Ma qui mi viene il dubbio che l'eroe della nostra storia sia stato introdotto arrosto. In questo caso ci sarebbe tutto da rifare, circa le scene 
immaginate. Come riuscirono a passare, i gesuiti, con la teglia calda e il suo profumato contenuto? E dove e come avevano cucinato l'animale, non prima visto da altri? 
Interrogativi che attendono risposta. Ma l'essenziale è che ora esso c'è e ci resterà. 
E non rimane che fargli quella festa che merita.


lunedì 19 dicembre 2011

Un anno di spot


24.12.2010.«Il 2011 sarà l'anno della ripresa» (Silvio Berlusconi).

12.1.2011. «L'ipotesi di una nuova manovra correttiva in Italia è irrealistica. Non c'è nessuna necessità di farlo, e ad oggi non c'è alcun rischio di questo tipo» (Silvio Berlusconi).

8.4.2011. «Mai saputo niente» (Giulio Tremonti, in risposta a chi gli chiedeva di una possibile manovra di correzione dei conti per giugno).

13.4.2011. «Non abbiamo emergenze o urgenze. Fare un drammatico intervento su 2011? È una visione pessimistica. Noi abbiamo per obiettivo il pareggio 2013-2014 e in funzione di quello dobbiamo fare calcoli e conti. Escludo lacrime e sangue» (Giulio Tremonti).

29.4.2011. «L'Italia ha messo alle proprie spalle il picco della crisi meglio degli altri paesi europei. L'Italia è riuscita a superare il punto critico della crisi economica internazionale ottenendo anche la fiducia dei mercati. Abbiamo realizzato una vera e propria mission impossible: e l'abbiamo fatto senza mettere mai le mani nelle tasche degli italiani» (Silvio Berlusconi).

4.5.2011. «Non è prevista nessuna manovra correttiva sui conti pubblici per il 2011» (Luigi Casero, sottosegretario al Tesoro).

5.5.2011. «Il mio vocabolario è abbastanza ristretto, manovra è una parola che non capisco...» (Silvio Berlusconi, rispondendo con una battuta a chi gli domandava se fosse in vista una manovra correttiva).

5.5.2011. «Non è così» (Silvio Berlusconi, in risposta a chi gli chiedeva, a Porta a Porta, della necessità di una manovra da 40 miliardi per il pareggio di bilancio).

9.6.2011. «Quest'anno faremo un'opera di manutenzione di qualche miliardo, tre miliardi. Faremo nei prossimi anni quello che abbiamo già fatto negli anni precedenti. Non si tratta di nulla di preoccupante. [In totale] Non sono 33 miliardi per niente, state tranquilli, inutile andare a preoccupare i cittadini per cose che non sono vere, andremo avanti con uno 0,7-0,8 di Pil, non c'è da preoccuparsi» (Silvio Berlusconi).

14.6.2011. «Quello che abbiamo già fatto è sufficiente» (Giulio Tremonti, su una eventuale correzione dei conti pubblici per il 2011 e 2012).

16.6.2011. «Abbiamo le idee chiare e non siamo preoccupati dell'impatto che [la manovra] potrà avere sull'opinione pubblica» (Silvio Berlusconi).

24.6.2011. «La manovra non avrà una cifra molto elevata» (Silvio Berlusconi).

26.6.2011. «Tutti gli organismi internazionali di controllo hanno dato dei pareri molto positivi sulla nostra attività di governo, hanno riconosciuto che nei primi tre anni di governo abbiamo operato al meglio e abbiamo posto i conti pubblici in sicurezza, al riparo dagli attacchi della speculazione internazionale» (Silvio Berlusconi).

30.6.2011. «Il popolo italiano capisce. La sua richiesta è quella di essere rigorosi e seri. La gente è molto favorevole a questa disciplina» (Giulio Tremonti).

30.6.2011. «Siamo stati ligi a non mettere le mani in tasca agli italiani ma qualche 'cosina' la abbiamo pensata, ma sono cose di pochissimo conto: pensavamo, per esempio, di eliminare il bollo auto ma ci sembrava logico che per grandi auto si potesse fare una piccola aggiunta» (Silvio Berlusconi).

7.7.2011. «L'ho annunciato io stesso in conferenza stampa, il governo è assolutamente aperto a modifiche durante l'iter parlamentare senza però che sia modificato il saldo finale» (Silvio Berlusconi; il saldo in realtà è lievitato, da allora, da 50 miliardi a 87,7).

3.8.2011. «Il nostro Paese è solido. Abbiamo fondamentali economici solidi. Le nostre banche hanno superato gli stress test europei mentre ovunque è aumentata l'incertezza. (…) l'evoluzione dei conti pubblici è più favorevole che in altri Paesi avanzati. Grazie alla azione di finanza pubblica del nostro governo, i conti sono migliorati e abbiamo un deficit di bilancio meno ampio di quanto indicato (5%) e comunque più basso di altri paesi area europea» (Silvio Berlusconi).

9.9.2011 «noi abbiamo una Stato indebitato ma dei cittadini benestanti ecco perché l'Italia è all'ultimo posto in Europa per il debito pubblico, ma diventiamo il secondo Paese in Europa per solidità e benessere dopo la Germania se facciamo l'aggregazione del debito pubblico con quello privato» (Silvio Berlusconi).

20.9.2011. «Le decisioni dell'agenzia sembrano dettate più dai retroscena dei quotidiani che dalla realtà delle cose e appaiono viziate da considerazioni politiche» (Silvio Berlusconi, alla notizia che S&P taglia il rating sulla capacità dello Stato di far fronte al debito).

4.10.2011 «L'Italia è tra i pochissimi paesi al mondo che ha un avanzo primario. L'avanzo primario cresce. Noi siamo in controtendenza - è il doppio della Germania, mentre nel caso della Spagna potrebbe dipendere dall'annuncio di nuove elezioni» (Giulio Tremonti, quando per la prima volta nella storia dell’euro lo spread italiano supera quello spagnolo)

4.11.2011. «Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni» (Silvio Berlusconi).
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Tanto per non scordare......



mercoledì 14 dicembre 2011


Due erano le passioni che avevo sin da piccolo: il cielo stellato e la bicicletta. A testimonianza della seconda, il fatto di aver passato il primo venti per cento della mia esistenza con le ginocchia perennemente sbucciate; a ricordo della seconda, il fatto di voler sempre andare in macchina con un mio zio, fratello di mio padre particolarmente dandy, e felice possessore di Giulietta Spider prima, e Fiat 124 Spider poi. 
Gli altri si affezionavano al vento, io a guardare il cielo.
Quindi, due domeniche fa, provate ad immaginare l’emozione di poter incontrare dal vivo Margherita Hack: l’occasione, un incontro in una libreria cittadina per presentare il suo libro “La mia vita in bicicletta” (Ediciclo). “Un lungo viaggio su due ruote attraverso i grandi eventi del Novecento”, recita la fascetta.
Ma lei è molto di più che una grande astrofisica, o di una scafata ciclista quasi novantenne: lei COMUNICA. E’ una grande affabulatrice, sa come attirare l’attenzione e la si ascolta in silenzio, incantati,  come astraendosi da una realtà che non sia quella del suo narrare. Per dire, ha esordito affermando di aver “preferito oggi spostarsi a cavallo di un neutrino, lungo il tunnel della Gelmini”, ed ha proseguito ripercorrendo la sua vita con immancabile ironia toscana, e sempre tenendo presente il legame con lo sport e con la bicicletta in particolare. Dal primo monopattino senza freni alla bicicletta da corsa, dalle instancabili pedalate fino al Liceo Classico Galileo di Firenze a quelle per andare all’osservatorio di Arcetri, la sua vita privata e professionale con la bicicletta come punto di riferimento. Al punto da avvalersene anche per un’efficace ulteriore dimostrazione delle tesi di Galileo, in occasione di un volo in bicicletta conclusosi con una ricaduta in sella: “non è stata fortuna , è stata la Fisica: facevo parte del sistema-bicicletta come si fa parte del sistema-terra mentre il nostro pianeta gira”. Ma la passione per la bicicletta è anche il ricordo degli anni della scuola, “il disagio di arrivare tutta scarruffata di fronte alle ragazze ben vestite della borghesia fiorentina”, e soprattutto l’amore per Aldo, il compagno di tutta una vita, anche quella sera in prima fila. E poi, la bocciatura in matematica, l’esame di maturità evitato per lo scoppio della seconda guerra mondiale, la scelta dell’antifascismo di fronte all’espulsione della professoressa di scienze perché ebrea, l’iscrizione alla Facoltà di Lettere -durata un’ora-  e quindi la scelta definitiva della Facoltà di Fisica.

Il tutto raccontato con la sua spietata lucidità ed ineguagliabile sarcasmo, nel colpire gli inganni e le assurdità tanto del passato quanto del presente. Anche riguardo all’attualità ha le idee ben chiare: dal sistema universitario, che forse “non è del tutto marcio, ma è certo penalizzato da una miriade di piccole università di serie B”, all’energia nucleare “che va investigata puntando alla trasformazione di idrogeno in elio come accade nelle stelle”, al progresso della conoscenza, che ci rivela “come non siamo poi così piccoli, se in due secoli abbiamo scoperto tanto guardando quelle lucine”. Riguardo poi alla politica di oggi, l’astrofisica sembra piuttosto fiduciosa: “oggi c’è un governo dove la gente sa leggere e scrivere e far di conto, magari le cose cambieranno”.
Alla fine, si è soffermata a lungo a con noi “encantados”, un po’ per firmare le copie del suo libro, un po’ beccandosi col pazientissimo consorte  [“ ‘un l’ha ancora capito che certe cose le si possono fare solo da vivi”], un po’ a ridacchiare con un paio di sue ex allieve.
Usciti dalla libreria, vedere l’umanità varia intenta a spendere sulle bancarelle natalizie mi ha fatto quasi impressione: ho alzato gli occhi al cielo, c’è sempre da imparare.
Non so perché, ma ho sorriso.

sabato 10 dicembre 2011

A quatre pas d’Ici

Stamattina, mentre trafficavo con statuette, capanna, muschio cinese, sangiuseppe che assomiglia ad uno dei Pooh, ecc.ecc. , mentre ripensavo alle polemiche di questi giorni sulla esenzione dall’Ici per le attivita’ di culto e quelle di assistenza sociale, oltre che per le attivita’ commerciali svolte da enti e realtà riconducibili alla Chiesa Cattolica, mi è balenata un’idea: facendo il Presepe, sono esente anch’io, adesso che il governo Monti reintroduce l’imposta, dall'ICI? 
Mi impegno a tenerlo tutto l'anno, ed in più sto facendo anche un'opera di carità e beneficenza mantenendo i miei figli ed un gatto. Dò loro ospitalità gratuita, li vesto, provvedo alle loro necessità quotidiane e somministro loro gratuitamente pure tre pasti al giorno. Inoltre non nego bevande calde e generi di conforto agli amici dei miei figli, alle amiche di mia moglie, sintonizzo i televisori di mezzo condominio, aiuto parenti e conoscenti degli stessi, nonchè i rispettivi vicini di casa, nelle pratiche burocratiche, dò consigli finanziari, tutto rigorosamente gratis.
Credo che basti per configurare casa mia come luogo di culto ed ente caritatevole. Praticamente sono una onlus: dovrei detassare il mio stipendio.
Allora telefono alla commercialista, e sulla base di queste considerazioni, le chiedo: posso esimermi dal pagare l'Ici? Posso avere qualche altra agevolazione? Posso richiedere il 5x1000? Mi impegno a sostituire le varie musichette natalizie lasciando acceso tutto il giorno su Radio Maria.
Risposta acidula della stessa: "La capanna del presepio in casa va considerata come pertinenza dell’abitazione, pertanto tassata come seconda casa". Poi, non paga di aver umiliato il mio sentito credere: "Dove hai comprato l'asinello?  Hai pagato in contanti?  Avevano il POS rotto? Ricordati di accatastare il bue e l'asinello e ricordati che pagano la tarsu in funzione della spazzatura che producono".
E poi dice che uno si butta a sinistra.

giovedì 8 dicembre 2011

La veste dei fantasmi del passato

[Durante la importazione dei vecchi post, ho sbattuto la faccia su questo, che secondo WP è stato quello più letto in assoluto nella storia del fiume. Lo ripropongo perchè ogni tanto tornare sui propri passi non è solo un esercizio o una vanità, ma un sottile senso del sentirsi vivi]
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“Stiamo servendo il numero…sessantaaaaa!”
La voce fredda, robotica, vorrebbe avere parvenza femminile, ma di una donna così se ne farebbe, credo, volentieri a meno. Guardo il mio tagliandino, diciotto numeri più in là, non diciotto persone, come minimo, in fila.
Numeri.
Persone è un concetto che finisce come quel pane indurito nella grattuggia della signora con cappellino similpelle che vuole, appunto, “tre etti di pane grattato”.
Mi guardo in giro, mentre la calcolatrice mentale considera che al ritmo di un numero ogni due minuti diviso tre commesse ecc.ecc.
“Mo valà..pretendi che io ti creda?”La voce è calda, stavolta. Arrabbiata, fino al confine del rauco. Di femminile non c’è solo lei: ci sono i riccioli biondi che spuntano dalla cuffietta con ponpon, c’è il profilo delicato, ci sono questi occhi grandi che la telefonata sta rendendo acquosi.
Se lui la vedesse, anziché rantolare scuse al telefono, non potrebbe non capire e, di conseguenza, fare altro che vergognarsi.
La guardo, la sua altezza, impreziosita da stivali col tacco, mi fa pensare a quanto il concetto di bambolina a volte non sia solo un modo di dire.
“Ed era il caso? Ma allora sei proprio ciordo*”Si, sconosciuta vicina in fila, lo è. Lo è per forza. Perchè il verde dei tuoi occhi è troppo trasparente per nascondere qualcosa, ed in te si legge l’innamorata delusa.“…settantasette…”
Passa il tempo senza accorgertene, quando ti impicci degli affari degli altri. Mentalmente ripasso la quantità di pane da prendere, valutando che la domenica non sarà un raddoppio del solito e che comunque a casa mi aspetterà il solito “potevi, non potevi, tanto c’è, tanto non c’è”. Va bene, va bene lo stesso.
“..io non ti chiamo più, t’arrangi..”Va bene, bambolina, anche se l’istinto mi dice che non sarai sincera fino in fondo verso te stessa.
Raccolgo il mio sacchetto, il profumo mi piace, mi piace proprio, ed il calore che trasuda dalla carta è come minimo piacevole.
Come è piacevole, dopo, vedere gli occhi del ragazzo che presta amorevole cura al nastro grosso con cui la commessa gli sta avvolgendo la scatola di cioccolatini. E quando la penna scrive sul biglietto “alla mia Lei speciale” capisci che è sincero.
E che non puo’ essere che vero.
E che se al sabato mattina verro’ ancora qui a comperare il pane, non è detto che sia solo perchè si risparmia.
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*ciordo= termine dialettale per indicare uno stupido.

lunedì 5 dicembre 2011

Invisible touch


Uno dei grandi miti dell’umanità è, da sempre, quello dell’invisibilità. Romanzi, film, saghe, leggende, fumetti, insomma di tutto e di più. Non essendo riusciti a far diventare l’invisibilità, almeno per ora, una tecnologia di massa, una di quelle cose che fa figo (insomma, non c’è per ora uno Steve Jobs a presentare un i-Nvisible) c’è chi ha cercato un surrogato. Per gli automobilisti il surrogato è nascosto (ma neppure troppo) in quel tastino che abbiamo a disposizione, quello con sopra tanti triangolini uno dentro l'altro, grazie al quale le frecce davanti e le frecce dietro lampeggiano contemporaneamente: le cd. Quattrofrecce.
Pensate che storia: al guerriero tutto bardato ed armato che con voce roboante chiama “Excalibur”, l’ometto insignificante che è in noi alza le spallucce ed obietta, con un certo successo “ecchemefreegaame? Tanto ci ho le Quattrofrecce, io”.
Inventate in Germania, non a caso la terra dei Nibelunghi, fino agli anni Ottanta  erano totalmente sconosciute in Italia: al massimo le notavi con curiosità sulle macchine  di qualche turista in Rivera Adriatica, ma solo se era notte fonda, la Mercedes era rimasta sul ciglio della strada, col cofano fumante, almeno tre ruote a terra, la marmitta persa duecento metri prima e gli occupanti che sporgevano dagli sportelli aperti a vomitare anche l’anima. Il tutto in un giorno di tempesta.
Ma il genio italico, una volta arrivata l’arma micidiale anche sulle nostre macchinette, ha saputo, e potuto, di più: fino a farle diventare, appunto, il surrogato alla invisibilità di cui sopra. Non c’è nessun problema: dovete portare i pupi a scuola, e non c’è un buco libero per metri e metri (già, perché lasciare il pupo, foss’anche un bestione di un metro ed ottanta, a fare venti metri a piedi è grave pregiudizio per la salute e per l’onore)? Bene, occupate la fermata del tram, pulsantino magico, et voilà: nessuno potrà mai dirvi niente, tanto ci avete le quattrofrecce, voi.
Dovete, la domenica, comperare un cabaret di paste nella prestigiosa pasticceria che lavora così bene e che la crema come loro, e quelle alla frutta, poi? Nessun problema: dato che i vostri gusti sono in media con quelli della maggioranza di chi alla stessa ora nello stesso punto ha la stessa esigenza, mentre altri si scannano per contendersi un sospirato posto nelle strisce, voi lasciate la fiera scudiera con le Quattrofrecce aizzate, e nessuno può permettersi di obiettare: in fin dei conti, vi sacrificate per la vostra famiglia, e si sa che a parlare di famiglia dalle nostre parti si colpisce sempre al cuore misericordioso del prossimo.
Chè poi, anche linguisticamente (e le parole, si sa, sono macigni) la cosa ci sta tutta: i libretti le chiamano luci di emergenza, e lo dice la parola stessa: emergenza, quindi qualcosa che emerge. Un’idea, un’esigenza, una paura: ad esempio, quella di tornare a casa senza essere passati dalla lavanderia a ritirare quel tal capo della vostra sposa che ve lo ha ricordato telefonicamente e che voi, con aria sufficientemente spavalda, avete liquidato col più convinto dei ci penso IO quando passo e che, ovviamente, avevate non pensato. Ovviamente, dall’unica lavanderia sulla strada, in prossimità di incrocio semaforico ai cui quattro angoli ci stanno la lavanderia stessa, il barbiere, il negozio di telefonini ed il panettiere: ma senza le Quattro, come faremmo?
C’è un solo, unico grande limite: che, in base al principio nazionale del cca nisciuno è fesso, tutti sappiamo usare l’arma micidiale, e ne riconosciamo al volo l’uso altrui: e dato che non è matematicamente possibile avere un popolo di tutti furbi, è assai più facile pensare che credendoci in massa tali, non ci si accorga, tutti, di essere, alla fine, un po’ coglioncelli. 

giovedì 1 dicembre 2011

Campanilismi

Qualche giorno fa, Akio, nel suo diario "A video spento", miniera di letture e riflessioni, ha citato un brano di Achille Campanile, vero e proprio Padre Nobile dell'umorismo e dell'ironia: qualunque libro suo è una fonte inesauribile di attrazione, intelligenza, divertimento.Esiste un sito a lui dedicato, una specie di buona cantina da cui il palato esce sempre soddisfatto ed appagato. Da lì, copio questa pagina dedicata al "famigerato" romanzo "Cuore" di De Amicis, una lettura che rasenta quasi l'horror in generale, e che nella critica di Campanile diventa uno di quei libri da leggere con una mano sola, l'altra essendo impegnata in gesti apotropaici. Buona lettura, quindi: un po' lunghetta, ma vale tutta fino in fondo, non escludendo le virgole.
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Le disgrazie di De Amicis non sono finite. L'ultima gli è capitata alla TV, dove in un dibattito pare che qualcuno abbia parlato male di lui. Dico pare, perché ho letto lettere di protesta nei giornali. È un fatto che molto alla leggera oggi si stronca tutto quello che è passato.E in «Cuore» è molto facile trovare frasi che, scritte per commuovere, da parecchi anni fanno sorridere e magari ridere. Quel mondo è una specie di Cottolengo, in cui i ragazzi sono pallidini e non ridono mai, molti hanno sempre l'aria spaventata, sembrano malatini, o hanno gli occhi buoni e tristi; spesso i padri li battono, molti hanno fame ma non hanno da mangiare, altri sono laceri e malaticci; le privazioni e le busse li intristiscono; qualcuno ha un braccio morto (perfino i bracci, morti!).

Gli uomini hanno una grande e severa barba nera e anch'essi non ridono mai. Le maestre sono tutte dimagrate, i maestri hanno tutti qualche pelo bianco di più nella barba; il maestro di quarta è zoppo, il maestro di ginnastica ha una cicatrice sul collo, il direttore della scuola è tutto vestito di nero (giurerei che è in lutto), sempre abbottonato fin sotto il mento (doveva essere allegro, a vedersi).

Quasi tutti sono o sembrano in lutto. Arriva il sovrintendente scolastico : «un signore con la barba bianca, vestito di nero». Anche il fratello di Enrico è malaticcio. Le madri sono quasi tutte malate. Enrico va a trovare un compagno di scuola e nella stanza trova la di lui madre in un gran letto, malata, con un fazzoletto bianco intorno al capo: visione quasi spaventosa, che ricorderebbe un po' il lupo di Cappuccetto Rosso, se la situazione non fosse tutt'altra. «Li avete presi i due cucchiarini di siroppo?», le dice il figlio.

Il maestro difende uno scolaro dai compagni che lo malmenano: «Avete schernito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere!»; non so quanto la difesa possa far piacere al malmenato. Uno scolaro «si leva sempre i peluzzi dai panni» (una classe di maniaci?); un altro cammina con le stampelle, essendo stato investito mentre salvava un compagno da investimento. «Anche la maestra era triste, oggi»; tanto per far cosa nuova.

Nemmeno i personaggi dei racconti mensili si salvano: la piccola vedetta lombarda: «Sono un trovatello!» (e poco manca che non aggiunga: «figlio di trovatello, discendente da un'antica famiglia di trovatelli»).

Il maestro si ammala gravemente e mandano a sostituirlo un maestro vecchio che è stato insegnante all'Istituto dei ciechi. La maestra di prima superiore, così pallida, e tossisce sempre! (Sta a vedere che muore anche lei). All'ex scolaro che, promosso, va in altra aula, dice con tristezza: «Non ti vedrò più nemmen passare!». E ha anche una punta di sadismo: «Ha voluto rivedere il letto dove mi vide molto malato due anni fa. Lo ha guardato per un pezzo e non poteva parlare». (Ma è guarito! Capirei fosse morto. Sta benissimo, invece).

Enrico annota: «La scuola, senza il maestro dell' anno scorso, non mi par più bella come prima». Sai quanto gli pareva bella, con l'altro maestro! Fortuna che c'è il nuovo maestro, «con la sua voce grossa ma buona! ».

E il padre d'Enrico! Una specie di Barbariccia del «Corriere dei Piccoli», sempre in agguato, per interloquire, far prediche, pronunziare frasi dal tono leggermente sinistro. Fin dal primo giorno di scuola. Un ragazzo è investito dall'omnibus; e lui: «Una disgrazia! L'anno comincia male!». Non è soddisfatto del figlio. Gli scrive lunghe lettere: «Ancora non ti vedo andare a scuola con quel viso ridente che vorrei». È una bella pretesa, che il figlio vada a scuola col viso ridente! Va a curiosare fra le carte del ragazzo, gliele riempie con postille e annotazioni; dove il figlio parla della gioia della prima nevicata: «Voi festeggiate l'inverno, ma ci son ragazzi che non hanno né panni né scarpe, né fuoco... Pensate alle migliaia di creature a cui l'inverno porta la miseria e la morte». E via, via, con un lungo elenco di disgrazie e miserie. Verissime, purtroppo. Ma il ragazzo non può nemmeno gioire per la prima nevicata. Il padre gli procura il magone.

Certe volte la predica non si basa nemmeno su fatti, ma su semplici supposizioni: «Il tuo compagno Stardi non si lamenta mai del suo maestro, ne sono certo...». E via, con una serie di confronti basati sulla supposizione che Stardi non si lamenti.

Sempre pronto a intervenire. Ferma il figlio che sta per ripulire la spalliera dove il muratorino in visita ha lasciato un'impronta di gesso. Potrebbe poi spiegare al figlio: «L'ho fatto perché tu non lo mortificassi», e basta. Invece gli scrive una lunga missiva: «Lo sai figliolo, perché non volli che ripulissi il sofà? Perché il lavoro non insudicia, perché, ecc. ecc, i calli..., la vernice..., la calce..., la pozzolana... ». E pensa a tutto. Quando viene in visita il gobbino, segretamente fa scomparire dalla parete il quadro che rappresenta Rigoletto, il buffone gobbo, perché l'ospite non lo veda. S'immischia, va curiosando. Vede un capannello per la strada: «Cos'è stato?»; sempre per trame motivi d'insegnamento al figliolo.

Spia il figlio perfino dalla finestra. E poi gliene scrive lunghe lettere. Non gli da respiro: «Tu hai urtato una donna. Bada meglio a come cammini. La strada è la casa di tutti. Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, uno storpio con le stampelle... », e via, via, una lunga lista di persone a cui cedere il passo, sicché c'è da pensare che ben difficilmente il ragazzo potrà fare un passo avanti, per la strada. E poi una serie d'incombenze che assorbiranno completamente il tempo della gita e gl'impediranno di arrivare dove che sia, inchiodandolo al punto di partenza: raccogli il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere, sorreggi il debole che attraversa la strada, soccorri il fanciullo in pericolo, aiuta nelle ricerche chi ha smarrito qualche cosa...

La casistica è completa e particolareggiata: se vedi una persona a cui arriva addosso una carrozza, se è un bimbo tiralo via, se è un adulto avvertilo; se due ragazzi rissano, va' a dividerli; se a rissare sono due adulti, allontanati; se passa un arrestato fra gli agenti, pensa che potrebb'essere un innocente ingiustamente sospettato; se passa una lettiga d'ospedale, pensa che ci potrebb'essere un moribondo; se passa un funerale, pensa che potrebb'essere quello di qualche persona a te cara.

E poi istruzioni e raccomandazioni relative ai ciechi, ai muti, ai rachitici, agli orfani, ai fanciulli abbandonati, a coloro che sono affetti da deformità repugnanti o ridicole, ecc. ecc; nessun possibile incontro è trascurato, e, per ognuno, una particolare norma circa il modo di regolarsi.

E poi sono contemplati tutti i possibili casi che possano occorrere: spegni sempre ogni fiammifero acceso che trovi sui tuoi passi, che potrebbe costar la vita a qualcuno; rispondi a chi domanda la via; non guardare nessuno ridendo, non correre senza bisogno... Tutto è previsto, il ragazzo non avrà tempo per occuparsi di nessuna faccenda propria, assorbito come sarà in continuazione da piccole cure umanitarie; sempre occupato a raccattare cartacce, spegner fiammiferi, sollevare persone sdrucciolate, divider litiganti, puntellare vecchi malfermi.

Un misto fra il giovane esploratore, il vigile stradale volontario, il netturbino dilettante, il pompiere d'occasione, la guida, il cicerone, l'interprete. E alla fine, nella lettera: «Rispetta la strada!». Anche la strada! E poi: «E studiale, le strade! Studia la città dove vivi. Se domani fossi sbalestrato lontano... il ricordo dei luoghi dove movesti i primi passi al fianco di tua madre... le vie dove provasti le prime commozioni...». E via, via; per concludere: «E quando la senti ingiuriare {la città), difendila! ». (Sempre a menar le mani!).
Passano i soldati. Predica sui soldati: «Voi dovete voler bene ai soldati, ragazzi. Sono i nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi uccidere per noi...». Giustissimo. Magari ci sono anche quelli che non andrebbero, se potessero.
Comunque, oggi queste cose fanno ridere. E magari farebbero ridere anche le osservazioni sulla bandiera. Sulla patria. «Retorica! », si dice. E della bandiera nessuno si ricorda più. E patria diventa un paese straniero, e perfino nemico. Magari si riverisce la bandiera d'un paese estero, e si irride alla propria. In Italia, beninteso. Che quelli di quegli altri paesi, queste cose le fanno fare e addirittura le esigono dagli altri; ma, per conto proprio, alla patria, alla bandiera (loro) credono.
Perfino durante le ore di lezione, il padre di Enrico, che evidentemente non ha altro da fare, continua ad aggirarsi intorno alla scuola. Scrive al figlio: «Aspettando l'uscita, io giro per le strade silenziose, intorno all'edifizio, e porgo l'orecchio alle finestre del pian terreno, chiuse dalle persiane». L'autentico Barbariccia di Tofano e del signor Bonaventura. «Da una finestra sento la voce d'una maestra che dice: "Ah! quel taglio di t! Non va, figliuol mio! Che ne direbbe tuo padre?" ».
Quanto agli svaghi, le uscite con la mamma sono fatte generalmente per portar biancheria a donnepovere, o a visitar scolaretti malati. Un giorno, gran festa. Scrive il piccolo Enrico nel suo diario: «Oggi ho fatto vacanza, perché non stavo bene, e mia madre mi ha condotto con sé all'Istituto dei ragazzi rachitici, dov'è andata a raccomandare una bambina del portinaio». Da cui si deduce:
a) che la visita all'Istituto dei ragazzi rachitici è considerato dalla brava signora una specie di ricostituente per bambini che non stanno bene;
b) che la bimba del portinaio del piccolo Enrico è rachitica. È ancora una pennellatina al quadro di zoppi, storpi, ciechi, gobbini, che circonda il piccolo e fortunato Enrico.
La maggior festa dell'anno, però, sembra essere il Giorno dei Morti. È l'unica a cui è dedicato un capitolo, sotto forma di lettera della madre. Natale, Capodanno, passano sotto silenzio. Un po' di spazio è dedicato al Carnevale, ma per farne racconto di disgrazie e oggetto di amare riflessioni. Del resto, questo è nel gusto del tempo. Ricordate il sonetto di Stecchetti: « Quando, lettrice mia, quando vedrai / impazzar per le strade il Carnevale, / oh, non scordarti, non scordarti mai, / che c'è gente che muore all'ospedale». Una specie di promemoria: uno vede impazzar per le strade il Carnevale e dice: «Ah, c'è gente che muore all'ospedale». Il degente all'ospedale vede attraverso i vetri della finestra impazzar per le strade il Carnevale, e pensa: «Meno male! C'è gente che si ricorda di noi».
Come se non bastasse il padre, anche la madre scrive lettere al piccolo Enrico. Una sui ragazzi rachitici; un'altra sul giorno dei morti.
Eppure, da tutto questo brulichio di storpietti, gobbini, zoppi, infelici, ciechi; da tutte queste prediche, viene fuori un mondo che tocca il cuore. Chi, ragazzo, non ha pianto per qualcuna di queste pagine, per qualcuno di questi personaggi? Un mondo intriso di lagrime, dove il sole quasi non brilla mai. Ma dove risplendono le idee di bontà, pietà, patria, bandiera nazionale, padre, madre, fratelli, scuola, maestri.
Oggi tutto è calpestato, irriso, contestato, come si dice. Non c'è più nessun Garrone, nessun Derossi, nessun piccolo patriota padovano, nessun Coretti, nessuna piccola vedetta lombarda, nessun piccolo scrivano fiorentino; o nessuno aspira ad esserlo. Si cercherebbero invano tipi come il tamburino sardo, l'infermiere di Tata, come il protagonista di «Dagli Appennini alle Ande». O magari ce ne sono, ma pare che facciano ridere.
Oggi, di tutto quel mondo ingenuo, se volete, perfino buffo, in certi aspetti, pare che conti soltanto e sia apprezzato soltanto il tipo Franti. Ricordate il personaggio Franti? «Franti, tu uccidi tua madre!», gli dice il maestro. «E quell'infame sorrise!». Oggi pare che sia apprezzato soltanto chi uccide, o vorrebbe uccidere, sua madre, suo padre, i fratelli, gl'insegnanti, la scuola, i vecchi, la patria.

                                                                   ACHILLE CAMPANILE