Sia ben chiaro:

Solamente una persona con gravi problemi psichici potrebbe ritenere questa accozzaglia di pensieri e parole come una testata giornalistica,anche perchè viene aggiornata senza alcuna periodicità.

NON PUO'PERTANTO CONSIDERARSI UN PRODOTTO EDITORIALE EX L.62 7/3/2001.



Per contattarmi: rivedelfiume@tiscali.it

mercoledì 25 gennaio 2012

HO LA FEBBRE IN TUTTO IL CORPO...


Domenica 19 agosto 1928
Mia amica. Ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze. Mai come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita. Prima vivevo le ore tranquille di Tantalo ed ora, oggi, l'oggi eterno che ci ha uniti, vivo, senza saziarmi, tutti i sentiti armoniosi dell'amore tanto cari a Shelley ed alla George Sand. Ti dissi - in quell'amplesso espansivo - quanto tempo ti amavo, ma vorrei dirti anche quanto ti amerò, perché il pane della mente che sa materializzare tutte le idealità elette dell'esistenza umana, ci sarà la guida più esperì a ,pieno di tante abilità, risolutrice di tutti i problemi nostri, che - e te lo dico con tutta la sincerità di un amico, di un amante di un compagno il nostro unisono bene sarà bello e lungo, godente e pieno di tutti i sentimenti, grande e sconfinatamente eterno. Quando ti parlo di eternità - tutto ciò che il cuore ha voluto ed amato è eterno - voglio alludere all'eternità dell'amore. L'amore mai muore. L'amore che ha germogliato lontano dal vizio e dal pregiudizio, è puro e nella sua purezza non si può contaminare e l'incontaminato è dell'eternità. Vorrei potermi esprimere sempre nel tuo idioma (Fina gli scriveva sempre in Castigliano, n.d.r.) per cantarti ogni attimo del tempo la dolce canzone dell'anima mia, farti comprendere i palpiti che percuote fortemente il cuore, le delicate figurazioni del pensiero mio che di te invaghitesi non potrà mai dare il "finis" della sua elegia. Ma d'altra parte - io che credo che il mio amore è da te contraccambiato con tutta la possanza della tua gioventù ancora in bocciolo, l'ho letto tante volte sulle tue nere pupille - mi contento nel sapere che per comprendere queste linee debbono essere rilette più di una volta da te. Tu non avrai tempo di scrivermi. Tu devi ancora dedicarti allo studio. Baciami come io ti bacio. Rendimi duplicato il mio bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Sei l'angelo celestiale che mi accompagna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ribelle. Con te, ora e sempre.
Tuo Severino

Severino è Severino di Giovanni, e la lettera è indirizzata ad America Josefina Scarfò detta "Fina", italoargentina di origine calabrese (Buenos Aires 1913-26 agosto 2006). Siamo, appunto, nella Argentina degli anni ’20, tra anarchia, terrorismo, amore ed impegno politico. Qui, la figura romantica di Fina diventa un’icona negli ambienti anarchici. Sorella di Paulino ed Alejandro Scarfò, anarchici e compagni di lotta di Severino, si innamora a 15 anni di quest’ultimo, e ne condivide le sorti fino alla fucilazione, avvenuta il 1 febbraio 1931. La stessa sorte tocca il giorno seguente al fratello Paulino. Restata sola, in un mondo assolutamente nemico, continua a mantenere viva la memoria dei suoi cari, ed avuto notizia, negli anni settanta, che la polizia federale argentina è ancora in possesso delle lettere d'amore che Severino  le aveva scritto, intraprende una lunga lotta con la stessa, al fine di ottenerne la restituzione, che finalmente ottiene durante il governo di Carlos Menem.  Fina  intanto si è laureata in lingua e letteratura italiana, ha fatto l'editrice per decenni, prendendosi a 86 anni il diploma universitario di "traductora publica" dal francese continuando a frequentare, nonostante l’età, l'università di Buenos Aires. Tutto ciò per adempiere giorno per giorno al monito di Severino che prima di morire le ha raccomandato "Continua a studiare!".
La storia d’amore è stata raccontata da Maria Luisa Magagnoli nel romanzo biografico “Un caffè molto dolce” [Bollati Boringhieri, 1996]. Il racconto ripercorre le tappe della storia d'amore e d'anarchia che nel tempo si è diffusa e propagata a macchia d'olio dall'America Latina in tutto il mondo. L'insegnante Di Giovanni è emigrato da Chieti in Argentina con la moglie Teresa e tre figli, approdando per caso nell'abitazione della famiglia Scarfò, d'origine calabrese - la madre Caterina Romano originaria di Tropea e il padre Pietro Scarfò di Portigliola - la quale offre ai Di Giovanni, in affitto, parte dei propri locali. Dalla convivenza tra le due famiglie nasce l'amore tra il giovane e la quindicenne Josefina America. Le lettere che Severino di tanto in tanto fa recapitare alla ragazza contengono parole sublimi di ardore e passione che però danno un tono sempre rispettoso alla relazione tra i due, in contraddizione con il modus operandi dell'anarchico che predilige, in nome della sua libertà, le scorribande terroristiche cittadine dispensando dinamite e pallottole in decine e decine di attentati sanguinari. Per potere stare assieme a Severino, e quindi lontano dai suoi, America sposa, d'accordo con l'amante, un certo Silvio Astolfi che dopo la morte di Di Giovanni abbandona, troncando i rapporti con la propria famiglia.
"Come stanno le begonie?" è il primo punto di domanda che Severino rivolge ad America per rompere il ghiaccio di quella che sarà la loro relazione sentimentale. E' la frase che col tempo è divenuta "cult" tra i giovani [e meno giovani] argentini per auspicarsi che l'inizio dell'approccio amoroso vada verso il buon esito sperato. Da tempo è adottata nello scambio degli auguri in occasione della Festa di San Valentino. [Per la cronaca, la risposta di Fina è stata "Sono triste!"].
Arrestato e condannato a morte, a Severino viene concesso di salutare Fina, anch’essa detenuta, prima dell'esecuzione. Lei lo abbraccia, lui la bacia. Le chiede di badare ai figli che egli ha avuto con Teresa, sua moglie. America gli risponde: "Il tuo ricordo mi rimarrà fino alla morte". Lui la guarda con gli occhi pieni di lacrime e le dice:"Oh, Fina, tu sei così giovane!Devi continuare a studiare". Si baciano di nuovo. Fina esce, continua a guardarlo, per questo inciampa in una grata e Severino le dice: "Stai attenta!".
I principali giornalisti di Buenos Aires assistono alla fucilazione. La miglior cronaca è quella di Roberto Arlt che non aggiunge alcun commento da parte sua, si limita a descrivere quel “teatro irrazionale della forza bruta contro le idee. La scarica terminò con il più bello tra i presenti", come conclude il suo articolo per  il Buenos Aires Herald.
Il giorno seguente cade anche Paulino Scarfò dinanzi al plotone di fucilazione. Sia Severino che Paulino, prima d’esser fucilati, sono stati barbaramente torturati dalla polizia di Uriburu. Ma essi non fanno  il nome di nessun compagno. L’ultimo incontro tra Fina ed il fratello è brevissimo. Lei non riesce a dissimulare il proprio dolore nel vedere il suo volto gonfio. Lui la trattiene: "Non piangere". Poi, con molto affetto, aggiunge: "Povera ragazza". Le bacia una guancia. Lei lo bacia con forza e gli chiede: "Non vuoi vedere la mamma?".  Lui risponde: "No, non vedi come sto?". Gli si vedono tutti i segni delle torture. Poi aggiunge: “Sto desiderando che tutto questo termini una volta per tutte". La bacia. Fina lo riabbraccia, si guardano negli occhi, ma non piange. L’agente di custodia  sollecita [possiamo immaginare con quale garbo]  di farla finita. Fina se ne va, il passo deciso. Sia Severino che Paulino, di fronte all’ordine di far fuoco,  gridano con tutto l’ultimo fiato: "Viva l’anarchia!". Accade nel penitenziario di Buenos Aires, e le scariche sono talmente intense ed accanite da essere udite fino nei giardini del quartiere Palermo.  Nell’arco di 48 ore alla adolescente Fina hanno strappato due suoi grandi affetti. Resta sola, in un mondo assolutamente nemico. Ma combattiva, decisa, pugnace.
Ed innamorata di vita e di amore.

"Carissima, più che con la penna, il testamento ideale m’è scaturito oggi dal cuore, quando ho parlato con te: le mie cose, i miei ideali. Bacia mio figlio, le mie figlie. Sii felice. Addio, unica dolcezza della mia povera vita. Ti bacio molto. Pensami sempre.
Il tuo Severino".

venerdì 20 gennaio 2012

33 1/3




Una domenica come le altre, pranzo a casa della suocera, io e mio cognato seduti accanto a chiacchierare di qualunque cosa sia attaccabile ad una presa elettrica o ad un cavo di rete;  in fin dei conti siamo reciprocamente le nostre isole di conversazione, sull’argomento.
Tv accesa, ovviamente su Raiuno dato che per mia suocera le tv sono o quella o Banale5. Ad un certo punto, deflagra sulle conversazioni (da un lato noi a ragionare su router&firewall, dall’altra parte le signore a raccontare di disgrazie e malanni) uno spot.  Quello dell’ultimo modello di Jeep. Colonna sonora: un indimenticabile giro di basso, cui segue una apertura di chitarre elettriche, spot che termina proprio nel momento in cui nel disco irrompono le voci. Cavolo, i Fleetwood Mac, questa è “The chain”, sta su “Rumours”.
Vola la memoria a quell’estate del ’77, Sandy  -l’amica americana- che arriva dagli States con questo album in vetta alle chart. Grande, la mia curiosità: per me i FM (Fleetwood, McVie, Green, Spencer) erano stati un gruppo inglese di onesti artigiani con ascendenze rock-blues , sulla scia di gruppi come potevano essere i Cream et similia. Poi Peter Green se n’era andato e, da solista, con “The end of the game”, aveva fatto le coccole agli orfani di Jimi Hendrix.  
Trasferitisi nella solatìa California, con l’ arrivo di Christine Perfect, coniugata McVie, e degli “indigeni” Buckingham e Nicks, era avvenuta la fusione in un unico calderone delle radici blues del gruppo con il soft rock molto “on the radio” tipico della San Francisco di quegli anni.
Quindi “Rumours" (Pettegolezzi: e mai titolo fu più azzeccato, dato che durante la lavorazione dell’album tra tradimenti, separazioni, riconciliazioni, scazzottate, gelosie, ripicche e quant’altro era successo davvero di tutto, peggio che in un film di Cassavetes): un esito commerciale incredibile, se è vero che l’album è tuttora il secondo più venduto di sempre, dopo “Thriller” di Michael Jackson. Uno dei dischi in assoluto più “suonabili”: qualità delle registrazioni elevatissima, classico disco da farci bella figura anche con impianti stereo modesti  -all’epoca ci si teneva moltissimo, viene quasi da sorridere, a pensarci nell’era degli mp3.
Beninteso, non è un capolavoro assoluto, anzi: ma ha un suo fascino tuttora irresistibile. "A soap opera in vinyl" lo definì lo stesso Buckingham, all’epoca “piacione” del gruppo: bastò infatti vedere le foto sull’album  per eleggere Stevie Nicks a Regina dei Sogni, e l’eleganza molto “macho” dell’ipertricotico Lindsey  a far sognare fiumi di ragazze [mia amica Sandy compresa].
L’album originale apre con "Second Hand News" , delizioso frutto del mix di cui parlavo sopra. Ma è subito immersione con quello che sarà il singolo dal successo stratosferico,  "Dreams", dove la voce nasale e vagamente eterea di Nicks ben si sposa con la forza della sezione ritmica sincopata. 

Never Going Back Again”, country pizzicato e cori che più californiani di così non si può, fa da rampa di lancio per  “Don’t stop”,  a firma di Christine (ancora per poco) McVie,  talmente popolare che diventerà l’inno, negli anni a seguire, per la campagna elettorale di un certo Bill Clinton…..
Go Your Own Way” è una dichiarazione di simil-odio, sotto forma di rock melodico, da parte dell’Ipertricotico verso la compagna Nicks, sospettata di una tresca sentimentale all’interno del gruppo.  Voce e piano (di Christine McVie) nella delicatissima "Songbird", prima di volare con “The chain”. Firmata dall’intero gruppo, potrebbe anche essere, oltra che colonna sonora dello spot, una delle canzoni-manifesto della musica californiana anni ’70, ricca di suggestioni e richiami, impasti melodici e vocali, forse il pezzo migliore dell’album, almeno nel mio sindacabilissimo giudizio. Finale dell’album al femminile ed alternato: “You Make Loving Fun” (C. McVie)  che rimanda un po’ al rock degli inizi, ma permeato delle nuove sonorità californiane; “I Don't Want to Know”, firmato Nicks, che sembra la risposta appunto ai pettegolezzi, ma musicalmente è neutrale; l’accorata “Oh Daddy”, omaggio firmato Christine ad un padre che non sappiamo se inteso realmente in senso genealogico, o se riferita ad uno spacciatore conosciuto nel giro, o se siamo agli epigoni di un Papi, nel senso conosciuto al giorno d’oggi nelle nostre cronache. Chiude l’album “Gold Dust Woman”: sempre firmato Nicks, con un tono anche vagamente antipatico nella voce, come se alla bambolina avessero pestato i piedini. O forse erano davvero solo chiacchiere, o, appunto “Rumours”.

Alla fine, non è proprio uno dei dischi che mi porterei nella classica isola deserta: diciamo però che se si ha voglia di un sottofondo non monocorde o di qualcosa da canticchiarci sopra in macchina, ha tuttora una sua valenza. Milioni di mosche persone che lo hanno comprato non possono essersi sbagliate……….



giovedì 12 gennaio 2012

Morte di un connesso viaggiatore


[e il naufragar è dolce in questo virtualmare]


Che poi uno con internet si fa una cultura.
Ad esempio, sei una ragazza e vivi in una centrale nucleare? Metti a riposo il tailleur, indossa un bikini sgargiante e concediti un paio di autoscatti: parteciperai al concorso Miss Atom. Se non ti senti così scissa, in Baviera potrai sempre trovare al "Brain Sciences" di Monaco qualcuno che ti legge nel cervello prima ancora che le tue sinapsi si coniughino in azioni. Se la materia grigia non è il tuo punto forte, c’è sempre la vista. Un paio d’ore al giorno davanti ai videogiochi per un mese migliora del 20% la capacità di identificare al volo le lettere di un test oculistico, parola dei ricercatori di Rochester, Usa. E addio all’antico rimedio delle carote. Il nobile ortaggio è ormai appannaggio delle mucche del Jersey: un allevatore assicura che, da quando ne sono diventate ghiotte, le sue producono un gustoso latte rosa.

Sono alcune delle chicche che vengono tranquillamente spacciate per notizie sul web. La decenza poi non permette di approfondire temi importanti quali il doppio vibratore collegato all’iPod, quanto fosse cessa Cleopatra [come da ricostruzione da cameo di 2000 anni fa], o l’hostess che si ricicla sex bomb per sedurre ad alta quota…
È dura la vita del connesso viaggiatore, peggio del naufrago di Thomas Eliot. Correnti sottomarine di silicio gli spolpano i neuroni in sussurri, mentre affiora e affonda tra un sito e l’altro entra nei gorghi di bit, fino al flutto profondo del mare telematico, che tutto assorbe e debella.
Ne esce madido quando alza la testa dallo schermo, sputa un giga di fiotto d’acqua e guarda attorno. Finalmente è tornato alla realtà. A quel mondo fatto di uomini e donne in carne e ossa, di aria e micropolveri, di traffico e di parcheggi, biciclette e ciclabili. Scontrini mai dati, code in tangenziale, benzina millesimata,  lavoratori e lavoratori in nero. Caste varie ed assortite che vengono difese da sindacati, partiti e istituzioni (ormai la stessa cosa, a giudicare dai componenti che migrano da una parte all’altra) che, come nello Stato di Don Raffaè, si costernano, s’indignano, s’impegnano poi gettan la spugna con gran dignità.
Trovi tutto quello che cerchi, nella realtà di internet. Un passatempo per tutte le età. C’è la scuola, i bambini, la ricreazione, le botte al professore. Ci sono gli street bar, gli aperitivi e le donne tiratissime, per farti vedere quant’erano belle 20 anni prima. Ci sono i bar e i centri sociali. La tua amicizia con Charlize Teron come quella con Bruce Springsteen. È tutto a portata di mano. Basta riaccendere il computer, aprire il browser, cliccare un segnalibro ed il nostro naufrago riprende la sua zattera, la spinge lontano dalla riva e torna in mare aperto. Sognando Miss Atom, ma sperando che in Baviera non prevengano quello che vorrebbe fare con Miss Atom; giocando coi videogiochi per vedere lontano, possibilmente non con uno di quelli dove debba ammazzare delle mucche. O spingersi fino a riva, per riuscire a sbirciare se davvero quel latte è rosa, e lassù in alto, per verificare se quell’hostess vale una trasvolata in prima classe.
In fondo, come nell’opera di Miller, “un viaggiatore deve sognare. I sogni sono i ferri del mestiere”.

mercoledì 4 gennaio 2012

Per rendersi conto che una strada è errata bisogna prima percorrerla


Un giorno, in un Puerto Escondido qualsiasi, in un certo punto della costa del Messico, sbarca dal suo yacht un giovane americano.
Il giovane viene accolto dalla piccola comunità di pescatori ed impiega poche ore per entrare in confidenza con uno di questi; così comincia a fare qualche domanda.
Oh pescatore”, chiede l’americano, “quanto hai pescato stamattina?
“Mah… poco”, gli risponde il messicano, “giusto quello che serviva alla mia famiglia, più quello che hai mangiato tu, ma il tuo è praticamente saltato sulla barca da sé.”
E perché non hai pescato di più?”, insiste il giovane.
“Ehm… non mi serviva di più”, risponde un po’ stupito il pescatore.
E quando non peschi, nel tempo libero, che fai?
“Beh… faccio la siesta, gioco coi bambini, sto con mia moglie, poi la sera noi pescatori ci troviamo tutti là, al bar sulla spiaggia, l’unico che c’è, sai, per qualche birra…”
Senti pescatore, io sono laureato ad Harvard e ci ho il Master in Business Administration… questo vuol dire che ho delle ottime idee per te e per il tuo futuro!
“Ah…” risponde il pescatore un pelo insospettito, “e che idee sarebbero?”
Niente guarda, tu devi occupare un po’ del tuo tempo libero per pescare un po’ di più, poi il pesce che ti rimane lo vendi ai ristoranti, oppure ad un’azienda che poi lo lavora…
“Eh…”, dice il messicano con sguardo stranito, “poi?”
“…poi coi soldi che guadagni dal pesce venduto ti ci compri altre barche per pescare ancora più pesce da rivendere e fare ancora più soldi…”, prosegue il giovane businessman, “…con ancora più soldi magari ti apri un tuo stabilimento per trattare ed esportare il pesce che peschi e lo fai arrivare sulle tavole di tutto il mondo, bello no?
“Come no”, risponde il pescatore, “ma tutta una roba così grande…, quei soldi…, qui nel paesino, che me ne faccio?”
Ma no, pescatore” lo incalza il dollarista, “ovviamente ti devi trasferire a Città del Messico o a New York, creare una società, assumere amministratori, mantenere le relazioni coi clienti poi, quando ti sarai espanso abbastanza, potrai quotare l’azienda in borsa, vendere le azioni e raggranellare milioni di dollari. Pensa”, continua il manager ormai in estasi finanziaria, “tra venticinque o trent’anni potresti essere il presidente di una grande holding, vendere pesce in tutto il mondo, comprarti ville, auto, terreni.
“Eh… bello… poi?”, chiede il pescatore divertito da tal delirio.
Poi arriverai alla pensione talmente ricco che potrai acquistarti una casa in riva al mare e finalmente passare il tempo con tua moglie o a giocare coi tuoi nipoti, riposarti, dormire ed uscire con gli amici...


Questa semplice storiella che gioca con l’idea contemporanea di lavoro e benessere, in cui per caso mi sono imbattuto, mi ha ricollegato al [leggibilissimo] libro di Paul Watzlawick che ho appena terminato: “Di Bene In Peggio. Istruzioni per un successo catastrofico” [Feltrinelli]. Quella che il businessman americano propone al rilassato pescatore sembra proprio somigliare ad una delle ipersoluzioni descritte da Watzlawick, ovvero una di quelle soluzioni definitive che, tentando di migliorare una situazione, finiscono col trasformala in catastrofe. Come spiega lui stesso nell’introduzione: “Caro Lettore! Esistono soluzioni per le quali non abbiamo ancora trovato una denominazione appropriata, e che si potrebbero forse chiamare ipersoluzioni. Il termine definisce un modo di affrontare i problemi che, pur essendo fondato sulle migliori intenzioni, finisce sempre con l’avere effetti controproducenti, più o meno nel significato espresso dal famoso bon mot dei medici: “operazione perfettamente riuscita, paziente deceduto.”